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dimanche, 27 mars 2016

L'Equinozio di Primavera e gli Dèi di Roma

 
Paolo Galiano
Ex: http://www.ereticamente.net

Il mese di Marzo costituisce il momento della generazione della potenza di Roma per mezzo di una serie di celebrazioni aventi il carattere specifico del rinnovamento, a cominciare dal sacro Fuoco di Vesta, simbolo del rapporto sacrificale perenne tra Roma e i suoi Dèi, che nel primo giorno del mese veniva ritualmente spento e riacceso. Il rinnovamento è celebrato nel nome di due divinità, il maschio Mars e la femmina Juno-Minerva, i due aspetti della donna come Vergine e come Madre: la duplice polarità di Marzo si realizza nella nascita iniziatica dei giovani, maschi e femmine, che nel successivo mese di Giugno si uniranno in matrimonio per proseguire l’eterna realtà di Roma nel tempo dei secoli futuri e nello spazio dell’espansione della sua civiltà ai popoli dell’area mediterranea.

La ri-nascita dell’Urbe ha il suo centro nella presenza in questo mese dell’Equinozio di Primavera, evento astronomico (e non solo) che i Romani nel tempo arcaico facevano cadere nel mese di Marzo, inserendo, se fosse stato necessario, un mese aggiuntivo (Interkalaris o Mercedonius) affinché Equinozio e mese di Marzo coincidessero, in quanto il primo giorno di Marzo era l’originario Capodanno di Roma (giorno che forse in un’età più arcaica cadeva il 21 Aprile). La connessione tra Marzo, mese dei giovani che entrano con l’iniziazione nella societas romana, ed Equinozio di Primavera, rifiorire della terra e sopravanzare delle ore di luce su quelle oscure della notte, rende intuitivo perché sia questa la data scelta da un punto di vista astronomico ma soprattutto sapienziale come inizio del Nuovo Anno.

Moneta con immagine della Juno Sospita di Lanuvium armata con lancia e ancile e accompagnata dal sacro serpente (denario di Lucio Procilio 80 a.C.).

Disegno pubblicato da Lenormant di un vaso andato perduto con Mars, Minerva e la Vittoria alata (Lenormant Élite de monuments ceramographiques, vol. IV tav. XCV): Mars è la figura del giovane iniziato che riceve le armi da Minerva e viene lustrato dalla Victoria in forma androgine.

Alle due divinità principali, Mars e Juno-Minerva, protettrici rispettivamente dell’iniziazione dei maschi e delle femmine, si associano divinità connesse all’abbondanza (Consus e Anna Perenna) e riti di allontanamento del “vecchio” (i Mamuralia) o di commemorazione degli antichi (gli Argei, compagni di Ercole). L’aspetto direttamente connesso alla generazione sul piano materiale lo si ritrova nella cerimonia degli Equirria, dedicati a Consus in ricordo del ratto delle Sabine mediante cui ebbe inizio la procreazione in Roma, e in quella di Anna Perenna, la quale cadeva alle Eidus, solitamente dedicate a Juppiter, celebrazione del ciclo annuale che si rinnova (Anna Perenna è chiaramente la “perennità”).

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GIUNONE E MINERVA, IL POLO FEMMINILE DI MARZO

Qui ci limiteremo ad esaminare le figure, molto complesse, di Juno-Minerva e di Mars[1], e precisiamo subito che scriviamo “Juno-Minerva” perché la Juno italica non ha nulla a che vedere con la greca Hera, alla quale venne più tardi assimilata: nel mondo latino la Dèa si presenta con attributi analoghi a quelli di Minerva, come vediamo nella statua della Juno Sospita (Salvatrice) di Lanuvio, divinità preromana vestita con i calcei repandi, calzature a punta rialzata che De Francisci fa risalire alle culture egeo-antoliche[2] e armata con la lancia e l’ancile, lo scudo bilobato dei Saliares di Mars, coperta da una pelle di capro[3] (la nebrys). Nella Roma arcaica essa non era la paredra di Juppiter, ma una divinità guerriera protettrice della città e dei suoi abitanti, e presiedeva alle iniziazioni delle adolescenti nel suo tempio di Lanuvio; ad essa i Romani dedicarono le Kalendae di Febbraio, affidando alla classe dei Cavalieri il ruolo di suoi sacerdoti, proprio per le caratteristiche di “protettori dell’Urbe” proprie a questi guerrieri come si può constatare nelle loro cerimonie dell’Equinozio di Autunno. Tutto ciò la rende analoga alla Minerva Tritonia di Lavinio, anch’essa vestita con la pelle caprina e armata di lancia e scudo ed anch’essa protettrice del passaggio rituale delle giovani donne nella città fondata da Enea.

Come Juno e Minerva sono collegate all’iniziazione femminile, così lo è Mars per i maschi, i quali, probabilmente dopo un primo rituale a cui erano stati sottoposti a Febbraio nel corso dei Lupercalia, ora a Marzo entravano a tutti gli effetti nella societas romana come guerrieri nel corso delle cerimonie dei Saliares.

La Juno celebrata alle Kalendae di Marzo era la Juno Lucina (protettrice dei parti ma anche Dèa della luce) o Matrona (l’attributo deriva dalla stessa radice *mas affine a Mars e alla parola maschio); il suo nome è etimologicamente collegato a juventas in quanto protettrice delle giovani fanciulle, alle quali era propria la juno, così come al maschio il genius, e come questi si connette con la gens, poiché il maschio prolunga nel tempo la sua gens dando il proprio nomen al figlio, la juno è in rapporto con la juventas, in quanto solo la donna giovane può procreare. Nella concezione romana la procreazione è per la donna quello che per gli uomini è la guerra, lo scopo della propria esistenza, ed è per questo motivo che Juno e Mars sono venerati nello stesso mese.

Ad essa erano dedicati i Matronalia; la Dèa era venerata in un tempio sull’Esquilino, nella zona di via in Selci presso l’attuale chiesa di San Francesco di Paola, e il tempio, già esistente nel 375 a.C., sarebbe stato dedicato dalle matrone a seguito di un voto fatto da una di esse in occasione del proprio parto. Il suo tempio sorgeva in un bosco sacro alla Dèa ma sicuramente più antico di esso, tanto che Plinio[4] riteneva che il nome di Lucina fosse derivato da lucus e non da lux; qui si trovava la sacra lotus, pianta che ritroviamo nei riti di Vesta, quando la nuova sacerdotessa scelta dal Pontefice Massimo tagliava i suoi capelli e li appendeva alla lotus capillata nell’Atrium Vestae. Il nome Lucina si può comunque collegare a luce, con il significato di “dare alla luce”, ed è nel lucus di questo tempio che venne dato l’oracolo alle donne sabine sterili: “Le italiche madri siano penetrate dal capro[5], che è alla base del rituale fecondatore dei Lupercalia.

Moneta con immagine della Juno Sospita di Lanuvium armata con lancia e ancile e accompagnata dal sacro serpente (denario di Lucio Procilio 80 a.C.).

Moneta con immagine della Juno Sospita di Lanuvium armata con lancia e ancile e accompagnata dal sacro serpente (denario di Lucio Procilio 80 a.C.).

La celebrazione di Juno Lucina era tenuta nei Matronalia, festa in cui le matrone portavano offerte alla Dèa per propiziarsi una gravidanza felice; in questo giorno si attuava uno scambio di ruoli tra matrone e servi, come nei Saturnalia di Dicembre tra i padroni e i loro servitori, per cui erano le matrone a servire a tavola i loro schiavi, come scrive Macrobio[6]: “Le matrone servivano la cena agli schiavi, come fanno i padroni durante i Saturnali: quelle per incitare all’inizio dell’anno con questo onore gli schiavi a pronta obbedienza, questi come per ringraziarli del lavoro compiuto”.

botticelli_minerva_restrains_c.jpgMinerva aveva la sua festa nel giorno delle Quinquatrus, giorno che cadeva, come dice il nome, il quinto giorno oscuro dopo le Eidus: il giorno era in origine sicuramente dedicato a Mars, dato che in esso i Saliari celebravano uno dei loro riti, ma venne in seguito “usurpato” da Minerva, certo in coincidenza con la sovrapposizione della Triade etrusca Juppiter-Juno-Minerva all’arcaica Triade Juppiter -Mars-Quirinus.

Viene spontaneo chiedersi: perché sostituire Mars con Minerva? L’innamoramento di Mars per Minerva tramandato nella nota leggenda di Anna Perenna è chiaramente un mito tardivo di epoca repubblicana e di origine greca, mentre Minerva si trova in origine collegata a Mars per altri motivi, in quanto è a loro due, insieme ad altre divinità, che vengono offerte in sacrificio le armi degli eserciti sconfitti[7]. Ecco perché Minerva è chiamata anche coniunx di Mars, lei che, essendo vergine, non può essere sposa di nessuno, ed il mito di Anna Perenna e Mars conferma come tra le due divinità non sia intercorso alcun rapporto sessuale.

- Disegno pubblicato da Lenormant di un vaso andato perduto con Mars, Minerva e la Vittoria alata (Lenormant Élite de monuments ceramographiques, vol. IV tav. XCV): Mars è la figura del giovane iniziato che riceve le armi da Minerva e viene lustrato dalla Victoria in forma androgine.

– Disegno pubblicato da Lenormant di un vaso andato perduto con Mars, Minerva e la Vittoria alata (Lenormant Élite de monuments ceramographiques, vol. IV tav. XCV): Mars è la figura del giovane iniziato che riceve le armi da Minerva e viene lustrato dalla Victoria in forma androgine.

Forse originariamente Minerva era non una Dèa ma una “qualità divina”, tanto che dopo l’affermazione della nuova Triade, come osserva Carandini[8], mentre a Juppiter vennero dedicate le Eidus e a Juno le Kalendae, a Minerva non vennero dedicate le Nonae, come ci si aspetterebbe per quella simmetria fondamentale anche sul piano religioso per i Romani. Questa “qualità divina” potrebbe trovarsi nella connessione del suo nome con una serie di radici affini, da cui vengono parole aventi relazione con la Dèa, quali mensis[9] dalla radice *men(e)s, mensura da *mē, da cui derivano le parole indoeuropee indicanti misura, mentre *men è all’origine dei termini indicanti memoria, ricordare, lat. memini, e da *menu deriva uomo come “uomo pensante”[10]. Il carattere precipuo di Minerva sembra quindi essere quello della “misurazione” collegata all’idea di “uomo pensante”: uomo capace di organizzare tramite la misura e di ricordare tramite la memoria.

Minerva è la Dèa ordinatrice che dà una struttura armonica ed equilibrata al cosmo, e questa sua funzione ordinatrice è realizzazione della potenza divina sul piano della creazione come su quello umano, dove senza memoria e intelletto non è possibile comprendere e seguire il volere divino espresso negli auspicia. Sul piano divino collabora con Juppiter in quanto consente l’attuazione della volontà del Dio supremo dando ordine al mondo, sul piano umano è il principio che porta gli uomini alla creazione di una societas equilibrata nelle sue componenti e in particolare, per quanto riguarda il mese di Marzo, agisce con Mars nel rito iniziatico con il quale il giovane si realizza come guerriero.

Segno della sua azione ordinatrice è anche la funzione come protettrice degli artigiani e dei pedagoghi (i quali in questo mese ricevevano il minerval, il loro salario o un dono da parte degli studenti), cioè coloro che collaborano al perfezionamento del cosmo, abbellendolo sul piano fisico con le loro opere e arricchendo le potenzialità dei giovani per mezzo dell’insegnamento.

Se Mars è l’archetipo del Re-guerriero, padre di Re e di guerrieri come Romolo, Minerva è la Dèa della misura e dell’ordine che derivano sul piano politico dall’organizzazione civile che ha al suo àpice il Re; sul piano iniziatico Minerva dà al giovane che accede all’iniziazione quell’ordine interiore che è necessario per temperare la furia guerriera indirizzandola ad un livello superiore.

La presenza di Juno alle Kalendae di Mars e la sovrapposizione di Minerva nelle Quinquatrus, in origine proprie a Mars, inducono ad una riflessione: vi possiamo vedere una sorta di progressiva invasione del femminile nell’area che fino allora era stata esclusivamente riservata a Dèi maschili e coincidente con il momento in cui la più antica Triade, costituita da Juppiter, Mars e Quirinus, si avvia alla scomparsa con la sostituzione degli ultimi due da parte di Juno e Minerva, sotto l’influsso etruschizzante della dinastia dei Tarquini, i quali cercarono di sovrapporre le loro divinità a quelle romane. La resistenza opposta nel corso della costruzione del tempio a Juppiter sul Campidoglio da due divinità, Terminus e Juventas, per non essere spostate dall’area in cui il nuovo tempio sarebbe sorto può essere anche il segno dell’opposizione del patriziato romano al piano religioso dei Re etruschi; fu necessario far spazio al tempietto di Juventas nella cella di Juno, mentre per Terminus, che aveva un altare-stele a cielo aperto, si dovette praticare un’apertura nel tetto della cella di Juppiter, perché mantenesse il suo carattere di templum sub divo. Si ha anche notizia di un tempio di Mars che esisteva già sul Campidoglio[11] e che venne non a caso raso al suolo per far posto alla nuova Triade.

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MARS, Il POLO MASCHILE DI MARZO

Mars, a cui è intitolato il mese, non è il signore della guerra, come venne concepito dopo la sua identificazione con l’Ares greco, ma ha le caratteristiche di un Dio connesso con la tutela dell’Ordine sia per mezzo della guerra offensiva, sia con la protezione di ciò che è generato, la città di Roma, i giovani, i campi che iniziano a germogliare, e per questo motivo presiede al ver sacrum, l’emigrazione di una generazione di uomini e di animali consacrati dalla nascita a tale compito.

Minerva Tritonia di Lavinium, statua in terracotta del V sec. a.C. ora esposta al Museo di Pratica di Mare.

Minerva Tritonia di Lavinium, statua in terracotta del V sec. a.C. ora esposta al Museo di Pratica di Mare.

Alcuni aspetti etimologici del suo nome fanno pensare che in origine egli fosse non un Dio guerriero ma piuttosto un Dio celeste: se in osco il suo nome è Mamers e forse in sabino Marmar (se è sabino il Dio presente nei Carmina dei Fratres Arvales), le varianti italiche del suo nome sono tutte derivate da una radice *Mauort-, alla quale è stato avvicinato il vedico Marut, nome della collettività dei compagni guerrieri di Indra, ma è possibile anche risalire ad una radice *mar, in relazione con il sanscrito marikis, lucente[12], per cui Mars sarebbe “il Dio splendente”, quindi una divinità avente carattere solare e celeste, e d’altronde il Carmen Saliare, se il verso è riferito a Mars, gli attribuisce il tuono e lo chiama “Dio della luce”[13], titoli solitamente propri di Juppiter, rispetto al quale Mars sembra essere precedente.

Il Dio, quando divenne iconico (probabilmente in origine era rappresentato solo dalla lancia sacra sia a Roma che in altre città latine), era rappresentato in armi con un copricapo costituito da un elmo ornato di due penne, secondo la testimonianza di Valerio Massimo e di Virgilio[14]. Suoi animali sacri erano il picchio e il lupo, il cui aspetto umano era rappresentato da suo figlio Pico, Re degli Aborigeni e fondatore di Alba, e da Fauno, figlio di Pico e quindi nipote di Mars.

Mars è una figura complessa che si può ricostruire solo eliminando l’aspetto meramente guerriero che è divenuto il suo attributo a causa della interpretatio greca: è, come abbiamo detto, il Dio che tutela l’ordine, se necessario anche con le armi, proteggendo l’esterno della città come i campi dei suoi cittadini, allontanando ciò che si contrappone all’ordine di Roma, i nemici umani ma anche le forze psichiche negative o comunque pericolose.

Questo lo si vede nella sua qualità di custode dei confini dei campi e dei possedimenti dell’agricoltore nel sacrificio privato del suovetaurilia, un toro, un ariete e un porco (offerta in origine esclusiva di questo Dio), funzione nella quale è chiamato a tenere lontano le intemperie e le malattie dai campi e dagli animali, e non a garantirne la fecondità e la crescita, perché queste sono azioni richieste ad altre divinità esclusivamente agricole. La cerimonia purificatoria dei campi degli Ambarvalia aveva il corrispondente a livello sociale nella lustratio quinquennale dei cives riuniti come milites nel Campo Marzio: attorno ai cives inquadrati militarmente veniva fatta girare l’offerta dei suovetaurilia, i quali erano poi sacrificati per ringraziare il Dio della protezione accordata nei cinque anni trascorsi. La cittadinanza come esercito ed i campi della città sono protetti intorno al perimetro da Mars in armi: “Tutta la sua funzione si esercita sulla periferia: indifferente alla natura di ciò che la sua vigilanza protegge, egli è la sentinella che opera al limite, sulla frontiera, ed arresta il nemico[15].

La “perifericità” di Mars è evidente nella dislocazione dei suoi templi, eretti al di fuori del pomerium, dall’arcaica ara del Campo Marzio al grande tempio fuori Porta Capena, ove si riuniva l’esercito prima di muoversi per le imprese di guerra e da cui partiva la Transvectio Equitum, la parata dei Cavalieri di Roma.

Altro aspetto di Mars è la sua tutela sul ver sacrum, l’emigrazione dei giovani e degli animali di una città nati nell’anno in cui un grave evento aveva turbato l’ordine della nazione: la consacrazione di un’intera generazione è posta sotto la sua vigilanza affinché giunga senza pericolo alla mèta che la volontà divina le ha assegnato; l’“emigrazione” di Romolo e Remo da Alba potrebbe configurarsi come un ver sacrum, così come quello che in precedenza aveva condotto gli Aborigeni dai loro territori originari di Amiternum, Reate e Interamna in Sabina verso il luogo dove sorgerà Roma, sostituendosi ai Siculi intorno al XIII sec. a.C.

Mars era il Dio dell’iniziazione degli adolescenti, i quali a Marzo entravano nella societas romana assumendo nel giorno dei Liberalia la toga virilis sotto la protezione di Liber, che in origine nulla aveva a che vedere con il greco Diònisos, né tanto meno con una triade Ceres-Liber-Libera formata sui Misteri Eleusini. A Mars spetta invece l’iniziazione specifica del guerriero[16], illustrata dal ludus Troiae nel “vaso di Tragliatella”[17], nonché da particolari rituali raffigurati su vasi o specchi etruschi incisi e da una cista proveniente da Palestrina, ritrovamenti studiati da Dumézil[18] e da Torelli[19], in cui Mars, a volte triplicato in tre figure di bambini o di giovani, è seduto su un grande vaso o estratto da esso o bagnato con il liquido versato da Minerva o da una Vittoria alata, raffigurazioni così commentate da Dumézil: “Le scene considerate rappresentano probabilmente le cerimonie dell’iniziazione (o delle iniziazioni successive) del guerriero-tipo di Mars, in virtù delle quali egli deve acquistare ciò che d’ordinario si acquista in tal modo: invulnerabilità o infallibilità del colpo o furor”.

L’oinochoe di Tragliatella (Caere 620 a.C. circa): i disegni sono interpretati come scene dell’iniziazione dei giovani nel corso del Ludus Troiae.

L’oinochoe di Tragliatella (Caere 620 a.C. circa): i disegni sono interpretati come scene dell’iniziazione dei giovani nel corso del Ludus Troiae.

Lungo tutto il mese di Marzo si esplica l’azione rituale dei Sacerdotes Saliares (a cui corrispondevano probabilmente le poco conosciute Virgines Saliares sul piano femminile), i sacerdoti portatori dei dodici ancili, i sacri scudi bilobati tra i quali era nascosto uno dei sette Pignora della potenza di Roma. Il fatto che l’origine della loro danza fosse fatta risalire ad Enea riporta la fondazione del loro sodalizio ad una remota antichità, in cui la Grecia micenea e il mondo latino, e Roma in particolare, erano tra loro in rapporto culturale e commerciale[20], per la funzione di crocevia che fin da tempi antichissimi ebbe l’Urbe, situata com’era al punto d’incontro tra la strada che dall’Appennino portava le greggi al mare e la via fluviale che dalle saline di Ostia conduceva verso l’Etruria e che trovava un eccellente approdo proprio alle falde del Palatino.

Un discorso sui Saliares e sulle loro Virgines sarebbe troppo lungo da farsi in un articolo, per cui rimandiamo ai testi citati in nota[21] chi volesse approfondirne il rituale e il significato.

SI APRE UN CICLO?

Potremmo a questo punto concludere che con l’Equinozio di Primavera si apre il ciclo dell’anno, ma sarebbe un errore, perché un circolo non ha inizio né fine e solo l’uomo, per le sue necessità materiali, segna con un Capodanno il principio del tempo, dimenticando che ciò non è possibile. È per questo errore di prospettiva, insito nella sua componente terrena, che l’uomo si è costruito il mito del “progresso”, che è solo un’apparenza e non una realtà, perché il tempo non si muove lungo una retta. In realtà i tempi dell’anno nel loro succedersi l’uno all’altro portano ciascuno in sé il tempo precedente e contengono i germi del tempo successivo, in un circolo (o meglio in una spirale) che non ha inizio né fine.

Se vediamo nel suo insieme i quattro tempi dell’anno nella concezione religiosa e sapienziale di Roma, ci accorgiamo come questo sia vero: con il Solstizio d’Inverno ha inizio l’Età dell’Oro di Saturnus che porta a compimento attraverso un ritorno all’Inizio il potere di Juppiter affermatosi nell’Equinozio d’Autunno. ma nell’oscurità della morte apparente del Sole vi è il germe della rinascita di Primavera; all’Equinozio di Primavera si raggiunge l’equilibrio del maschile e del femminile nella polarità di Mars e Juno-Minerva prefigurata nel Solstizio d’Inverno da Saturno e da Bona Dèa, equilibrio che contiene il sé il germe dell’acme che verrà nel Solstizio d’Estate con l’avvento di Vesta, il Fuoco sacro che arde al centro dell’Urbe, mese dell’unione dei due nel vincolo del matrimonio, che avrà il compimento nell’affermazione del potere di Juppiter nel prossimo Equinozio d’Autunno, ma in cui già ha inizio la scomparsa della luce un attimo dopo il culminare del Sole al punto più alto del suo corso; con Juppiter l’Equinozio d’Autunno porta alla pienezza il potere germinato nel Solstizio d’Estate ma nella parità delle ore di luce e di oscurità è prefigurata la fine apparente della forza creatrice del Sole nel Solstizio d’Inverno che seguirà.

A questo punto, chi può mettere un segno e dire: “Questo è l’inizio”?

BIBLIOGRAFIA

CARANDINI: La nascita di Roma – Dèi, Lari, Eroi e uomini all’alba di una civiltà; ed. Einaudi, Torino 1997

DE FRANCISCI: Variazioni su temi di preistoria romana, ed. Bulzoni, Roma 1974

DEVOTO: Origini indoeuropee – Il lessico indoeuropeo, Tabelle, ed. Sansoni, Firenze 1962

DUMÉZIL: Jupiter Mars Quirinus, ed. Einaudi, Torino 1955

DUMÉZIL: La religione romana arcaica, ed. Rizzoli, Milano 1977

GALIANO e VIGNA: Il tempo di Roma, ed. Simmetria, Roma 2013

GALIANO Mars Pater, ed. Simmetria, Roma 2014

TORELLI: Lavinio e Roma, ed. Quasar, Roma 1984

TORELLI: La forza della tradizione, ed. Longanesi, Milano 2011 pagg. 51-55.

NOTE:

[1] Per un esame completo del mese di Marzo rinviamo a Il tempo di Roma di GALIANO e VIGNA; per una più ampia trattazione di Mars e dei suoi Sacerdotes Saliares a GALIANO Mars Pater.

[2] DE FRANCISCI Variazioni su temi di preistoria romana, pag. 109 nota 371.

[3] CICERONE De natura Deorum I, 82.

[4] PLINIO Nat Hist XVI, 44, 235.

[5] OVIDIO Fas II, 441.

[6] MACROBIO Sat I, 12, 7, il quale sembra non comprendere il significato di “ritorno all’Età dell’Oro” proprio di questi rituali.

[7] APPIANO Bellum Punic XX; LIVIO Hist XLV, 33.

[8] CARANDINI La nascita di Roma pag. 422.

[9] Il rapporto tra Minerva e la misura dei mesi lo troviamo nel rito di Settembre con cui si infiggeva il clavus annalis nella cella consacrata a Minerva nel tempio capitolino di Juppiter, a segnare l’inizio del nuovo anno.

[10] DEVOTO Origini indoeuropee rispettivamente n° 118, 324, 325, 328°.

[11] CARANDINI cit. pag. 356 nota 161.

[12] LEWIS e SHORT Latin Dictionary alla voce “Mars”.

[13] Frammento 2 del Carmen Saliare: “Cume tonas, Leucesie, prae tet tremonti / quot ibet etinei deis cum tonarem”, il cui testo, scritto in latino arcaico del IV sec. a.C., può essere approssimativamente così tradotto: “Quando tuoni, o Luminoso, davanti a te tremano / tutti gli Dèi che lassù ti hanno sentito tuonare”.

[14] VALERIO MASSIMO I, 8, 6; VIRGILIO Aen VI, 777–780.

[15] DUMÉZIL Jupiter Mars Quirinus, pag. 194.

[16] Dell’iniziazione guerriera a Roma abbiamo trattato in GALIANO Mars Pater e in GALIANO L’Ordo Equestris a Roma, in “Simmetria on line” n° 23 Luglio 2013.

[17] Oltre ai lavori citati nella nota precedente, si veda BAISTROCCHI Il Cerchio magico, riti circumambulatori in Roma antica, Roma s.d. (2010?) pagg. 72-88

[18] DUMÉZIL Jupiter Mars Quirinus pagg. 221–222.

[19] TORELLI La forza della tradizione pagg. 51-55.

[20] Relazioni confermate dai reperti archeologici più antichi ritrovati a Roma, che risalgono al Bronzo recente (circa 1350–1200 a.C.) e provengono dall’area sacra di Victoria e Vica Pota sul Palatino (CARANDINI pag. 100 nota 17) e dalla zona di Sant’Omobono ai piedi del Capitolium (idem pag. 238).

[21] In particolare GALIANO Mars Pater.

vendredi, 11 mars 2016

L'Italia, Roma e il sacro

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vendredi, 19 février 2016

Marcus Aurelius: Life of the Famous Roman Emperor and Philosopher

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Marcus Aurelius: Life of the Famous Roman Emperor and Philosopher

Ex: http://www.ancient-origins.net

Marcus Aurelius Antoninus, known more commonly as Marcus Aurelius, was the 16th emperor of Rome, who reigned from 161 AD to his death in 180 AD. Marcus Aurelius is remembered as the last of the Five Good Emperors (the other four being Nerva, Trajan, Hadrian and Antoninus Pius). Apart from being a Roman emperor, Marcus Aurelius is also known today for his intellectual pursuits, and is considered as one of the most important Stoic philosophers.

The Life of Marcus Aurelius

Marcus Aurelius was born into an aristocratic family in Rome in 121 AD. His uncle was Titus Aurelius Antoninus (Hadrian’s successor, the emperor Antoninus Pius), who was adopted by Hadrian, after his earlier choice of successor died suddenly. Hadrian also arranged for the adoption of Marcus Aurelius by Antoninus. As a result of this adoption, the youth once known as Marcus Annius Verus became renamed as Marcus Aurelius Antoninus.   

Marble bust of Hadrian at the Palazzo dei Conservatori.

Marble bust of Hadrian at the Palazzo dei Conservatori. (Public Domain)

Hadrian died in 138 AD, and was succeeded by Antoninus, who reigned till his death in 161 AD. During the early part of Marcus’ reign, he ruled the empire with a co-emperor, Lucius Verus, who was his ‘half-brother’. Lucius’ father was Lucius Aelius, Hadrian’s first choice of successor. Lucius became Marcus’ ‘half-brother’ when he was adopted by Antoninus Pius. In 169 AD, Lucius Verus died, and Marcus was left as the sole ruler of the Empire. In 177 AD, Marcus once again took a co-emperor, this time, his son, Commodus. Marcus died three years later, in 180 AD.

Portrait of Lucius Aelius (101–138 AD) inserted afterwards in a heroic statue

Portrait of Lucius Aelius (101–138 AD) inserted afterwards in a heroic statue (CC BY 2.5)

Marcus in ‘The Caesars’ and Other Texts

Marcus Aurelius is considered by some to have been the best emperor that Rome ever had. In a short comic sketch known as The Caesars, written by the 4th century AD Roman Emperor, Julian the Apostate, Marcus is depicted as attending a banquet (along with the gods and other dead Roman emperors) given by Romulus during the festival of the Cronia. Marcus is depicted quite positively by Julian. For instance, Silenus, a companion and tutor of Dionysus, would mock each emperor as they arrived at the banquet. When Marcus arrived, however, he had nothing bad to say about him:

“Next entered the pair of brothers, Verus [Marcus Aurelius] and Lucius. Silenus scowled horribly because he could not jeer or scoff at them, especially not at Verus.”

A contest was then held at the banquet to determine who the best emperor was, in which Marcus, as expected, emerged victorious.

Marcus Aurelius’ virtuous deeds have also been recorded in the historical sources. For instance, in the Historia Augusta, it is claimed that:

“When he (Marcus) had drained the treasury for this war (the Marcomannic war), moreover, and could not bring himself to impose any extraordinary tax on the provincials, he held a public sale in the Forum of the Deified Trajan of the imperial furnishings.”

The emperor is also viewed positively by the historian Cassius Dio, who wrote, amongst other things, that:

“… [Marcus] had been emperor himself nineteen years and eleven days, yet from first to last he remained the same and did not change in the least. So truly was he a good man and devoid of all pretence.”

The Meditations of Marcus Aurelius

Apart from sources written about Marcus Aurelius, his own thoughts can be found in one of his works known as The Meditations. This piece of writing is in the form of a personal notebook, and is speculated to have been written whilst the emperor was on a military campaign in central Europe. It was due to this piece of work that Marcus received a reputation as a philosopher. Marcus’ Stoic philosophy can be seen in phrases such as these:

“Be like the promontory against which the waves continually break, but it stands firm and tames the fury of the water around it.” 

“A cucumber is bitter. - Throw it away. - There are briars in the road. - Turn aside from them. - This is enough. Do not add, And why were such things made in the world?” 

“But fortunate means that a man has assigned to himself a good fortune: and a good fortune is good disposition of the soul, good emotions, good actions.”

Lucius Verus, Marcus' co-emperor from 161 to Verus' death in 169 (Metropolitan Museum of Art lent by Musée du Louvre)

Lucius Verus, Marcus' co-emperor from 161 to Verus' death in 169 (Metropolitan Museum of Art lent by Musée du Louvre). (CC 1.0)

Although Marcus Aurelius is regarded as one of the greatest Roman emperors, it may be pointed out that it was during his reign that the empire was constantly threatened by external forces, namely the Parthians and the Germanic tribes. The emperor and his generals, however, were mostly able to successfully counter these threats.

However, the emperor’s biggest mistake, perhaps, was the appointment of his son, Commodus, as co-emperor in 177 AD. Commodus became the sole ruler of the Roman Empire when his father died in 180 AD, and is often regarded as a bad emperor. Moreover, his reign is regarded as the end of Rome’s golden age as Commodus failed to follow in his father’s famous footsteps.

Featured image: The Statue of Marcus Aurelius (detail) in the Musei Capitolini in Rome. Photo source: Public Domain.

By Ḏḥwty

References

Anon., Historia Augusta: The Life of Marcus Aurelius [Online]

[Magie, D. (trans.), 1921. Historia Augusta: The Life of Marcus Aurelius.]

Available at: http://penelope.uchicago.edu/Thayer/E/Roman/Texts/Histori...

Cassius Dio, Roman History [Online]

[Cary, E. (trans.), 1914-27. Cassius Dio’s Roman History.]

Available at: http://penelope.uchicago.edu/Thayer/E/Roman/Texts/Cassius...

Cavendish, R., 2011. Marcus Aurelius becomes Emperor of Rome. [Online]
Available at: http://www.historytoday.com/richard-cavendish/marcus-aure...

Julian, The Caesars [Online]

[Wright, W. C. (trans.), 1913. Julian’s The Caesars.]

Available at: http://www.attalus.org/translate/caesars.html

Marcus Aurelius, The Meditations [Online]

[Long, G. (trans.), 1957. Marcus Aurelius’ The Meditations]

Available at: http://classics.mit.edu/Antoninus/meditations.html

Mark, J. J., 2011. Marcus Aurelius. [Online]
Available at: http://www.ancient.eu/Marcus_Aurelius/

Sellars, J., 2016. Marcus Aurelius (121—180 C.E.). [Online]
Available at: http://www.iep.utm.edu/marcus/

www.biography.com, 2016. Marcus Aurelius. [Online]
Available at: http://www.biography.com/people/marcus-aurelius-9192657#c...

jeudi, 21 janvier 2016

Carnuntum - Weltstadt im Land der "Barbaren"

Carnuntum - Weltstadt im Land der "Barbaren"

Der römische Offizier und Historiker Villeius Paterculus berichtete sechs nach Christus, dass ein unter dem Feldherrn Tiberius stehendes römisches Heer sein Winterlager im keltischen Königreich Noricum errichtete. Der genaue Ort der Niederlassung wird als "Carnuntum" bezeichnet. Das war die Geburtsstunde der legendären, römischen Großstadt im "Land der Barbaren", später auch als Klein-Rom an der Donau bezeichnet.

Mit 3-D-Animationen und Spielszenen wird das Leben und Treiben in der antiken Metropole wieder zum Leben erweckt.

Besonders ausführlich beschäftigt sich der Film mit den ganz alltäglichen Dingen des römischen Lebens vor 2.000 Jahren, die aus heutiger Sicht besonders interessant erscheinen. Wie hat die normale Zivilbevölkerung gelebt? Und wie der einfache Soldat? Was wurde gegessen und was wurde getrunken?

Antworten auf diese und viele Fragen mehr sind in den aufwendig inszenierten Spielszenen verpackt. Der Zuschauer erfährt, wie der so genannte "Puls", der Eintopf, in der römischen Armee zubereitet wurde, aber auch, was die so genannte High Society tafelte: Die Oberschicht Carnuntums genoss kulinarisch nahezu jeden Luxus. Sogar frische Austern, die man in salzwasserbefüllten Holzfässern von der Adria bis an die Donaumetropole transportierte, standen auf der Speisekarte. Doch nicht nur "was" gekocht wurde, sondern auch "wie" gekocht wurde, zeigt der Film in hyperrealistischen Bildern.

mercredi, 16 décembre 2015

Yann Le Bohec, historien de «La guerre romaine»

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Yann Le Bohec, historien de «La guerre romaine» (58 avant J.-C. – 235 après J.-C.)

Tallandier (collection L’art de la guerre, 2014)

Ex: http://cerclenonconforme.hautetfort.com

Le constat de l’auteur est sans appel : l’armée romaine a été l’armée la plus efficace de l’Antiquité. Voire peut-être même de l’histoire. Avec cette synthèse claire et détaillée venant couronner quarante années de recherches, Yann Le Bohec, l’un des plus grands spécialistes de la Rome antique et de son armée, nous livre un travail précieux dont l’intérêt est loin de n’être que strictement historique. L’histoire est enseignements et lorsque l’on voit le piteux état de nos forces armées aujourd’hui, on se dit que l’Etat-major serait fort avisé d’aller prendre quelques leçons chez les anciens… En cinq chapitres couvrant tous les aspects de la guerre romaine, Yann Le Bohec explore l’armée comme institution, sa stratégie, sa tactique, son environnement et surtout la manière dont les Romains vivaient et percevaient la guerre. Leur psychologie, basée tant sur la religion que sur le droit, est en effet un élément fondamental pour comprendre comment ils sont arrivés à une telle excellence dans l’art de guerroyer.

L’armée romaine de l’empire a bien sûr trouvé ses bases dans l’armée républicaine mais a été changée en profondeur par Auguste. En plus de faire de l’empereur le chef suprême de l’armée, celui-ci en fit une armée permanente, professionnelle et sédentaire. Impressionnante par ses effectifs (plus de 300.000 hommes en 23), l’armée ne l’était pas moins par son recrutement de qualité. N’étaient sélectionnés comme légionnaires que des hommes libres choisis après un examen approfondi de leurs aptitudes, de leurs compétences et de leur morale : le dilectus. Ces citoyens étaient la colonne vertébrale d’une armée qui comptait en plus de ses légionnaires bien d’autres unités auxiliaires employant des alliés de Rome ou des étrangers. Les affranchis et les esclaves ne furent employés que dans des cas extrêmes car, dans les mentalités de l’époque, ils étaient considérés comme indignes de porter les armes... Cet aspect qualitatif du recrutement n’était pas la seule force de l’armée. L’encadrement des soldats en était le second pilier. Il était dû à une hiérarchie efficace, formée et toute dévouée au service de l’Etat. D’origine sénatoriale ou équestre, les officiers étaient tenus de montrer leur virtus en offrant le meilleur d’eux-mêmes. C’est une réelle culture de l’exemple. Il est donc essentiel de le souligner : les valeurs romaines sont indissociables de la manière dont la guerre est pensée et vécue. La fides et l’honneur en sont les clés de voute. La valeur individuelle du combattant et son comportement au combat s’allient à la discipline collective. Cette dernière était si importante dans l’armée qu’elle avait même été divinisée à partir d’Hadrien! La discipline se retrouvait dans l’exercice que les Romains considéraient presque comme une science. Mêlant sport, exercices individuels ou collectifs (dont les manœuvres et mouvements étaient le but ultime), l’exercice était vu comme le moyen de garantir le bon comportement du soldat à la guerre ainsi que son obéissance totale. La conclusion est simple : le légionnaire romain est un guerrier de qualité extrêmement bien préparé à la guerre, tant physiquement que moralement.

bohecUU1qhtuL.jpgLa qualité de l’armée romaine venait aussi de sa polyvalence et de sa capacité d’adaptation à toutes les situations. A l’aise dans toutes les formes de combat, elle n’a jamais hésité à emprunter aux autres peuples ce qui pouvait parfaire son efficacité. L’héritage grec fut ici aussi fondamental, notamment en ce qui concerne la poliorcétique (l’art du siège). Par ailleurs, l’armée romaine se caractérisait par une tactique de combat où rien n’était laissé au hasard. La logistique, les services, le génie, le renseignement, la santé et les transmissions avaient été développés comme dans aucune autre armée de l’antiquité. La stratégie, à savoir la mise en œuvre des divers moyens de gagner, était très étudiée et les conflits étaient préparés par des actions politiques ou diplomatiques et s’appuyaient sur une économie prospère.

Bien loin d’être le peuple belliqueux que certains ont pu décrire, les Romains considéraient la guerre comme un mal nécessaire et non une fin en soi. L’auteur démontre d’ailleurs que, contrairement à une idée tenace, Rome n’a jamais eu de projet impérialiste à proprement parler. Elle a mené des guerres tant défensives qu’offensives au gré des circonstances et sans réelle préméditation ou plan d’ensemble. Pourquoi alors faisait-on la guerre ? Les raisons étaient multiples (politiques, sociales, économiques, militaires) mais souvent liées à la psychologie collective : la peur de l’ennemi ; la protection de Rome (patriotisme) ou d’alliés de Rome ; le goût de la domination ou du butin… Une certaine passion immodérée de la guerre a bien sûr toujours existé et des personnages comme César ou Trajan en sont les plus emblématiques. Les Romains ont certes pu déclencher des guerres d’agression sous des prétextes fallacieux mais de nombreux exemples démontrent leur volonté de limiter et de réguler les conflits. Ils considéraient d’ailleurs la guerre civile comme l’horreur absolue... Idéalement, la guerre devait être juste (Cicéron) et limitée (les Stoïciens) mais, une fois commencée, elle devait être victorieuse coûte que coûte, quel qu’en soit le prix. En effet, la victoire amenait la paix et donc la prospérité, la felicitas, sur le peuple romain. N’oublions pas que la victoire, dans les premiers temps de Rome, avait été divinisée… La religion était indissociable de la guerre. Les soldats étaient très pieux et participaient, au sein des garnisons, à de nombreuses cérémonies religieuses. La religion était omniprésente, qu’on pense aux présages des dieux avant le combat (les auspices) ou à toutes ces cérémonies qui bornaient le temps militaire et lui donnaient un réel « rythme sacral ». La fin des campagnes, en octobre, était ainsi l’occasion de trois cérémonies de première importance : l’equus october (course de char), l’armilustrium (purification des armes) et la fermeture des portes du temple de Janus afin de retenir la paix, vue par les Romains comme l’état le plus positif qui soit.

La grande qualité de l’ouvrage de Yann Le Bohec réside non seulement dans l’exhaustivité de son propos (vous apprendrez tout sur la vie quotidienne des soldats, leurs équipements, le détail des différentes unités ainsi que sur l’histoire de l’armée en tant que telle) mais aussi dans la réflexion qu’il mène sur la guerre à partir de multiples exemples historiques ou philosophiques. Objectif, il montre bien que cette armée puissante et organisée avait également ses faiblesses. A partir du 3ème siècle, la conjoncture défavorable pour l’empire accompagnée de l’oubli progressif des préceptes qui avaient fait son efficacité dans le passé sonneront peu à peu le glas de la grande armée romaine.

Rüdiger / C.N.C.

Note du C.N.C.: Toute reproduction de cet article doit mentionner la source.

vendredi, 11 décembre 2015

L’empereur Hadrien

Hadrien_2-660x330.jpgL’empereur Hadrien

Au cœur de l’histoire

sur Europe 1

Hadrien (Imperator Caesar Traianus Hadrianus Augustus, en grec Ἁδριανός ou Ἀδριανός), né le 24 janvier 76 à Italica et mort le 10 juillet 138 à Baïes, est un empereur romain de la dynastie des Antonins. Il succède en 117 à Trajan et règne jusqu'à sa mort. Empereur humaniste, lettré, poète et philosophe à la réputation pacifique, il rompt avec la politique expansionniste de son prédécesseur, s'attachant à pacifier et à structurer administrativement l'Empire, tout en consolidant des frontières parfois poreuses.

Il doit sa gloire autant au prestige de son règne qu'aux Mémoires d'Hadrien de Marguerite Yourcenar, qui en fait un souverain conscient de la mission universelle de Rome.

Source : https://fr.wikipedia.org/wiki/Hadrien

AU CŒUR DE L'HISTOIRE sur Europe 1

« L’INTÉGRALE - Hadrien », émission du 10 octobre 2014

Franck FERRAND reçoit Catherine SALLES pour évoquer cette existence hors du commun, notamment à travers le prisme des voyages d’Hadrien.

dimanche, 08 novembre 2015

Stoic indifference is a personal power

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Stoic indifference is a personal power

Ashley Bailey

© Raymond Depardon/Magnum

Ex: http://www.therussophile.org   

As legions of warriors and prisoners can attest, Stoicism is not grim resolve but a way to wrest happiness from adversity

We do this to our philosophies. We redraft their contours based on projected shadows, or give them a cartoonish shape like a caricaturist emphasising all the wrong features. This is how Buddhism becomes, in the popular imagination, a doctrine of passivity and even laziness, while Existentialism becomes synonymous with apathy and futile despair. Something similar has happened to Stoicism, which is considered – when considered at all – a philosophy of grim endurance, of carrying on rather than getting over, of tolerating rather than transcending life’s agonies and adversities.

No wonder it’s not more popular. No wonder the Stoic sage, in Western culture, has never obtained the popularity of the Zen master. Even though Stoicism is far more accessible, not only does it lack the exotic mystique of Eastern practice; it’s also regarded as a philosophy of merely breaking even while remaining determinedly impassive. What this attitude ignores is the promise proffered by Stoicism of lasting transcendence and imperturbable tranquility.

It ignores gratitude, too. This is part of the tranquility, because it’s what makes the tranquility possible. Stoicism is, as much as anything, a philosophy of gratitude – and a gratitude, moreover, rugged enough to endure anything. Philosophers who pine for supreme psychological liberation have often failed to realise that they belong to a confederacy that includes the Stoics. ‘According to nature you want to live?’ Friedrich Nietzsche taunts the Stoics in Beyond Good and Evil (1886):

O you noble Stoics, what deceptive words these are! Imagine a being like nature, wasteful beyond measure, indifferent beyond measure, without purposes and consideration, without mercy and justice, fertile and desolate and uncertain at the same time; imagine indifference itself as a power – how could you live according to this indifference? Living – is that not precisely wanting to be other than this nature? Is not living – estimating, preferring, being unjust, being limited, wanting to be different? And supposing your imperative ‘live according to nature’ meant at bottom as much as ‘live according to life’ – how could you not do that? Why make a principle of what you yourself are and must be?

senecaFUJR6XH4W_1.jpgThis is pretty good, as denunciations of Stoicism go, seductive in its articulateness and energy, and therefore effective, however uninformed.

Which is why it’s so disheartening to see Nietzsche fly off the rails of sanity in the next two paragraphs, accusing the Stoics of trying to ‘impose’ their ‘morality… on nature’, of being ‘no longer able to see [nature] differently’ because of an ‘arrogant’ determination to ‘tyrannise’ nature as the Stoic has tyrannised himself. Then (in some of the least subtle psychological projection you’re ever likely to see, given what we know of Nietzsche’s mad drive for psychological supremacy), he accuses all of philosophy as being a ‘tyrannical drive’, ‘the most spiritual will to power’, to the ‘creation of the world’.

The truth is, indifference really is a power, selectively applied, and living in such a way is not only eminently possible, with a conscious adoption of certain attitudes, but facilitates a freer, more expansive, more adventurous mode of living. Joy and grief are still there, along with all the other emotions, but they are tempered – and, in their temperance, they are less tyrannical.

If we can’t always go to our philosophers for an understanding of Stoicism, then where can we go? One place to start is the Urban Dictionary. Check out what this crowd-sourced online reference to slang gives as the definition of a ‘stoic’:

stoic
Someone who does not give a shit about the stupid things in this world that most people care so much about. Stoics do have emotions, but only for the things in this world that really matter. They are the most real people alive.
Group of kids are sitting on a porch. Stoic walks by.
Kid – ‘Hey man, yur a f**kin f****t an you s**k c**k!’
Stoic – ‘Good for you.’
Keeps going.

You’ve gotta love the way the author manages to make mention of a porch in there, because Stoicism has its root in the word stoa, which is the Greek name for what today we would call a porch. Actually, we’re more likely to call it a portico, but the ancient Stoics used it as a kind of porch, where they would hang out and talk about enlightenment and stuff. The Greek scholar Zeno is the founder, and the Roman emperor Marcus Aurelius the most famous practitioner, while the Roman statesman Seneca is probably the most eloquent and entertaining. But the real hero of Stoicism, most Stoics agree, is the Greek philosopher Epictetus.

He’d been a slave, which gives his words a credibility that the other Stoics, for all the hardships they endured, can’t quite match. He spoke to his pupils, who later wrote down his words. These are the only words we know today as Epictetus’, consisting of two short works, the Enchiridion and the Discourses, along with some fragments. Among those whom Epictetus taught directly is Marcus Aurelius (another Stoic philosopher who did not necessarily expect to be read; his Meditations were written expressly for private benefit, as a kind of self-instruction).

Among those Epictetus has taught indirectly is a whole cast of the distinguished, in all fields of endeavour. One of these is the late US Navy Admiral James Stockdale. A prisoner of war in Vietnam for seven years during that conflict, he endured broken bones, starvation, solitary confinement, and all other manner of torture. His psychological companion through it all were the teachings of Epictetus, with which he had familiarised himself after graduating from college and joining the Navy, studying philosophy at Stanford University on the side. He kept those teachings close by in Vietnam, never letting them leave his mind even when things were at their most dire. Especially then. He knew what they were about, those lessons, and he came to know their application much better than anyone should have to.

Stockdale wrote a lot about Epictetus, in speeches and memoirs and essays, but if you want to travel light (and, really, what Stoic doesn’t?), the best thing you could take with you is a speech he gave at King’s College London in 1993, published as Courage Under Fire: Testing Epictetus’s Doctrines in a Laboratory of Human Behavior (1993). That subtitle is important. Epictetus once compared the philosopher’s lecture room to a hospital, from which the student should walk out in a little bit of pain. ‘If Epictetus’s lecture room was a hospital,’ Stockdale writes, ‘my prison was a laboratory – a laboratory of human behaviour. I chose to test his postulates against the demanding real-life challenges of my laboratory. And as you can tell, I think he passed with flying colours.

Stockdale rejected the false optimism proffered by Christianity, because he knew, from direct observation, that false hope is how you went insane in that prison. The Stoics themselves believed in gods, but ultimately those resistant to religious belief can take their Stoicism the way they take their Buddhism, even if they can’t buy into such concepts as karma or reincarnation. What the whole thing comes down to, distilled to its briefest essence, is making the choice that choice is really all we have, and that all else is not worth considering.Who […] is the invincible human being?’ Epictetus once asked, before answering the question himself: ‘One who can be disconcerted by nothing that lies outside the sphere of choice.’

Any misfortune ‘that lies outside the sphere of choice’ should be considered an opportunity to strengthen our resolve, not an excuse to weaken it. This is one of the truly great mind-hacks ever devised, this willingness to convert adversity to opportunity, and it’s part of what Seneca was extolling when he wrote what he would say to one whose spirit has never been tempered or tested by hardship: ‘You are unfortunate in my judgment, for you have never been unfortunate. You have passed through life with no antagonist to face you; no one will know what you were capable of, not even you yourself.’ We do ourselves an immense favour when we consider adversity an opportunity to make this discovery – and, in the discovery, to enhance what we find there.

How did we let something so eminently understandable become so grotesquely misunderstood? How did we forget that that dark passage is really the portal to transcendence?

Many will recognise in these principles the general shape and texture of cognitive-behavioral therapy (CBT). Indeed, Stoicism has been identified as a kind of proto-CBT. Albert Ellis, the US psychologist who founded an early form of CBT known as Rational Emotive Behaviour Therapy (REBT) in 1955, had read the Stoics in his youth and used to prescribe to his patients Epictetus’s maxim that ‘People are disturbed not by things but by their view of things.’ ‘That’s actually the “cognitive model of emotion” in a nutshell,’ Donald Robertson tells me, and he should certainly know, as a therapist who in 2010 wrote a book on CBT with the subtitle ‘Stoic Philosophy as Rational and Cognitive Psychotherapy’.

This simplicity and accessibility ensure that Stoicism will never be properly embraced by those who prefer the abstracted and esoteric in their philosophies. In the novel A Man in Full (1998), Tom Wolfe gives Stoicism, with perfect plausibility, to a semi-literate prison inmate. This monologue of Conrad Hensley’s may be stilted, but there’s nothing at all suspect about the sentiment behind it. When asked if he is a Stoic, Conrad replies: ‘I’m just reading about it, but I wish there was somebody around today, somebody you could go to, the way students went to Epictetus. Today people think of Stoics – like, you know, like they’re people who grit their teeth and tolerate pain and suffering. What they are is, they’re serene and confident in the face of anything you can throw at them.’

Which leads us naturally to ask just what it was that was thrown at them. We’ve already noted that Epictetus had the whole slavery thing going on, so he checks out. So does Seneca, in spite of what many have asserted – most recently the UK classicist Mary Beard in an essay for the New York Review of Books that asks: ‘How Stoical Was Seneca?’ before providing a none-too-approving answer. What Beard’s well-informed and otherwise cogent essay fails to allow for is just how tough it must have been for Seneca – tubercular, exiled, and under the control of a sadistically murderous dictator – no matter what access he sometimes had to life’s luxuries. It was Seneca himself who said that ‘no one has condemned wisdom to poverty’, and only an Ancient Greek Cynic would try to deny this. Besides, Seneca would have been the first to tell you, as he told a correspondent in one of his letters: ‘I am not so shameless as to undertake to cure my fellow-men when I am ill myself. I am, however, discussing with you troubles which concern us both, and sharing the remedy with you, just as if we were lying ill in the same hospital.’

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Marcus Aurelius lay ill in that hospital, too. As beneficiary of the privileges of emperor, he also endured the struggles and stresses of that very same position, plus a few more besides. I know better than to try to improve on the following accounting, provided in Irvine’s A Guide to the Good Life:
He was sick, possibly with an ulcer. His family life was a source of distress: his wife appears to have been unfaithful to him, and of the at least 14 children she bore him, only six survived. Added to this were the stresses that came with ruling an empire. During his reign, there were numerous frontier uprisings, and Marcus often went personally to oversee campaigns against upstart tribes. His own officials – most notably, Avidius Cassius, the governor of Syria – rebelled against him. His subordinates were insolent to him, which insolence he bore with ‘an unruffled temper’. Citizens told jokes at his expense and were not punished for doing so. During his reign, the empire also experienced plague, famine, and natural disasters such as the earthquake at Smyrna.

Ever the strategist, Marcus employed a trusty technique in confronting the days that comprised such a life, making a point to tell himself at the start of each one of them: ‘I shall meet with meddling, ungrateful, violent, treacherous, envious, and unsociable people.’ He could have been different about it – he could have pretended things were just hunky-dory, especially on those days when they really were, or seemed to be. But how, then, would he have been prepared to angle both into the wind and away from it – adapting, always, to fate’s violently vexing vicissitudes? Where would that have left him when the weather changed?

Lary Wallace is features editor of Bangkok Post: The Magazine. He has written for the Los Angeles Review of Books, The Paris Review Daily, The Library of America Reader’s Almanac, and others.

mardi, 27 octobre 2015

Arqueólogos alemanes encuentran el campamento de Varus en Germania

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Arqueólogos alemanes encuentran el campamento de Varus en Germania


Ex: http://www.abc.es
 
Los arqueólogos de la Universidad de Osnabrück que están realizando las excavaciones
 

Si los alemanes beben cerveza en lugar de vino, aliñan con mantequilla y no con aceite de oliva, o siguen hablando una lengua endiabladamente hostil a los herederos del latín es porque nunca fueron romanizados. Y se lo deben a Arminio, un líder germano que contuvo a las legiones e impidió la creación de una provincia romana en la margen derecha del Rin. La gesta de Arminio, sin embargo, se ha mantenido a lo largo de los siglos en la niebla del mito nacional germánico, puesto que el único testimonio arqueológico de su victoria era una piedra funeraria con el nombre del centurión Marcus Caelius y una inscripción que documenta que murió en la Batalla de Varus. Ahora, el reciente hallazgo arqueológico de un campamento romano en Baja Sajonia arroja una primera luz científica sobre la leyenda y ayuda a redibujar el mapa de la historia romana de Alemania.

Se trata de un campamento romano de tiempos de Cristo en lo que hoy es Wilkenburg, al sur de Hannover, en el que según los primeros indicios llegaron a concentrarse al menos durante unos cuantos días unos 20.000 soldados romanos fuertemente armados, lo que equivale a tres legiones y a una décima parte del total de las tropas del imperio. Es el primero de su tipo hallado en el norte de Alemania y concretamente estuvo ocupado, según las primeras mediciones, entre el año 12 a.C. y el 9 d.C.. Desde él parten además, en varias direcciones, rutas de 20 kilómetros en las que se encuentran otros pequeños campamentos auxiliares. Junto a restos de sandalias romanas, pinzas y fíbulas, en total vario cientos de objetos y restos, han sido halladas monedas de la época del emperador Augusto. Hay denarios romanos acuñados en Lyon y otras monedas de origen celta. Su pormenorizado estudio aportará precisión al descubrimiento, mientras el trabajo de campo ha cumplido ya sus primeros objetivos.

Fueron unas imágenes aéreas lo que llamó la atención de los arqueólogos estatales del Land de Baja Sajonia y comenzaron las excavaciones en un área de 500 por 600 metros. Harald Nagel, afanado en el repaso con detectores de metales de unas 30 hectáreas de terreno, se muestra prudente en su valoración del hallazgo. «Los estudios de las monedas están todavía en su fase preliminar y es pronto para sacar conclusiones», dice, pero reconoce que «el yacimiento demuestra que Hannover y sus alrededores fueron un punt de importancia histórica y estratégica muy superior a lo que se estimaba hasta ahora».

Al igual que las legiones de Varus, los trabajos arqueológicos han de vérselas con constantes y copiosas lluvias que convierten las trincheras de excavación en auténticos barrizales cada dos por tres. «Tácito ya describió sobre la batalla de Varus que llovían perros y gatos», recuerda el arqueólogo Hening Hassmann, que destaca el cruce de rutas norte-sur y este-oeste que fue elegido para instalar a las tropas romanas.

En efecto, en 1515, el humanista Ullrich von Hutten descubrió en el primer libro de los Anales de Tácito una referencia a «Arminius», de quien el historiador romano decía que había infligido una derrota a Roma cuando el imperio estaba en todo su esplendor. Tácito calificaba a Arminius como el verdadero liberador de Germania. Ullrich von Hutten tomó las lacónicas apreciaciones de Tácito sobre Arminius y publicó en 1529 un diálogo póstumo titulado «Arminius», que cultivaron los los protestantes para subrayar la independencia no ya ante la Roma imperial sino ante la iglesia romana.

Hay consenso entre los historiadores sobre que Arminio, un germano que había formado parte del ejército romano y en quien Varus confiaba, formó una alianza entre varias tribus bárbaras y le tendió una trampa a Varus para hacerse con el control de la región. Las legiones romanas sucumbieron a una emboscada que terminó en carnicería. El actual hallazgo, por su importancia y dimensiones, apunta por ahora solamente a dos posibles lecturas: o bien el mismo Tiberio subió más al norte de lo que se había pensado hasta ahora, o fue Varus el que llegó hasta Hannover para allí morir y poner fin a la expansión romana en Germania.

lundi, 14 septembre 2015

S.P.Q.R

S.P.Q.R

Inno Impero Romano

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samedi, 16 mai 2015

Maintenir et transmettre l’esprit de la culture antique

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L'ANTIQUITÉ ET LES MONOTHÉISMES
 
Maintenir et transmettre l’esprit de la culture antique

Danièle Sallenave, académicienne*
Ex: http://metamag.fr
Il est un argument décisif en faveur des langues et cultures de l’antiquité auquel nos gouvernants auraient du penser avant de proposer des programmes qui voient leur effacement progressif.

Il paraît même étonnant qu’on n’y ait pas songé, alors que, dans le même temps, on se dit préoccupé par le retour de la religion et des affrontements religieux ! On a en effet décidé, pour se prémunir contre leur violence, de mettre en place un enseignement du « fait religieux », portant sur l’origine commune et l’histoire des trois monothéismes. Donc, naturellement, de l’Islam.

Mais alors il faudrait, impérativement, dresser en face de ce bloc monothéiste, l’édifice considérable du monde antique. Non que celui-ci ait ignoré la dimension religieuse, mais dans l’univers polythéiste des Grecs et des Romains, la religion ne se présente pas comme une vérité unique, garantie par sa source divine, ni comme un dogme. Les religions antiques sont constituées de représentations à la fois cosmologiques, sociales et politiques, bien éloignées de ce que nous appelons aujourd’hui du nom de religion. Et bien moins promptes à s’imposer par la force : ce qui est réprimé chez les Chrétiens, c’est moins leur croyance que leur refus public d'adhérer à la cité et à son culte.

Mais ce n’est pas seulement les religions antiques dont il faudrait réveiller l’étude et la connaissance, et la relative tolérance qui les marque : c’est le monde de pensée, d’art, de philosophie, dont les Grecs et les Romains furent porteurs pendant plus d’un millénaire. En un mot : cet humanisme, qui trouve ses fondements dès le Vème siècle avant notre ère avec la formule du penseur grec Protagoras, « l’homme est la mesure de toutes choses ». Inventions, audaces inouïes de l’Antiquité ! Jusque dans la confrontation avec l’esprit des religions : pour la première fois dans l’histoire de la pensée, avec le De natura rerum, Lucrèce pose les bases d’une philosophie matérialiste qui s’en prend à tous les « crimes » que les religions ont pu dicter.

La conversion d’un empereur romain, Constantin, fera du christianisme une religion d’état à valeur universelle. À partir de ce moment, le monde antique recule, ses dieux refoulés ne sont plus que les personnages de mythes inoffensifs. La pensée antique est destituée, elle perd tout fondement légitime, et se voit progressivement remplacée par une pensée, une morale, une culture issues de la christianisation. Comme l’avait déjà dit au IIème siècle un père de l’église, Tertullien, qui jugeait dangereuse la lecture de Platon : « Quand nous croyons, disait-il, nous ne voulons rien croire au-delà. Nous croyons même qu’il n’y a plus rien à croire ». Son apologétique de nouveau converti est une vigoureuse attaque de toutes les formes de la philosophie antique, à laquelle il refuse même ce nom.

D’où la forme que prend, à la fin du Moyen Age, le grand mouvement qui va marquer toute l’Europe, et qu’on a nommé à juste titre Renaissance. Ce sont en effet des années où « l’humanité renaissait » écrit Anatole France dans son Rabelais (1928). Et cet élan vers l’avenir s’appuie, paradoxalement, sur un retour, le retour à l’Antiquité, c’est-à-dire au monde d’avant la Bible. Les auteurs de la Renaissance retrouvent l’inspiration de Protagoras. C’est Marcile Ficin écrivant que « Le pouvoir humain est presque égal à la nature divine ». Érasme : « On ne naît pas homme, on le devient », et confiant le soin de cet avènement de l’homme dans l’homme à la pratique des antiquités grecques et romaines. Rabelais, pratiquant un évangélisme hostile à tout dogmatisme, demande aux lettres érudites et à la science de former « cet autre monde, l’homme ». Montaigne, enfin, pourtant profondément, chrétien, prend pour modèle de sagesse humaine non pas le Christ, qu’il ne cite jamais, mais Socrate.

Socrate fut condamné à boire la cigüe et les espérances de la Renaissance sombrèrent finalement dans l’atrocité des guerres de religion : cela ne retire rien à leur leçon. Maintenir et transmettre l’esprit de la culture antique, c’est garder ouvertes les voies d’un humanisme réfractaire à tout dogmatisme. C’est maintenir une vision plurielle de l’histoire, c’est refuser de se soumettre au monopole d’une vérité unique, porté par un livre unique, et imposée au monde avec l’invention du monothéisme.

mardi, 23 décembre 2014

Así se combatía la corrupción pública en la antigua Roma

Gürtel, Operación Púnica, los ERE de Andalucía, la familia Pujol, Bárcenas o el caso Noos son el pan nuestro de cada día. Desayunamos, comemos y cenamos con ellos en las noticias. Como explica el escritor y ensayista italiano Carlo Alberto Brioschi, en el siglo XXI, la corrupción se ha convertido en una especie de bacilo de la peste que, sin embargo, padecemos desde hace siglos. Y así es, porque delitos tan actuales como el cohecho, el tráfico de influencias, el robo de las arcas del Estado, la extorsión, la adjudicación de obras públicas a amigos poderosos o la compra de votos colapsaron a muchos gobiernos de la antigua Roma, que tuvieron que establecer toda una serie de leyes para perseguirla.

Durante algún tiempo, las estructuras del Estado romano se resistieron a esta corrupción sin sufrir grandes contratiempos. Era parte de un sistema social y político basado en el clientelismo, el abuso de poder, las mordidas y el enriquecimiento personal. La codicia de los funcionarios públicos no tenía límite y estos delitos fueron creciendo a ritmo de las conquistas. Pero llegó un momento en que el gobierno se hizo impracticable y el derecho romano tuvo que introducir cambios.

corr9782262034009.jpgSin embargo, la convivencia entre buenos propósitos y acciones deshonestas por parte de los gobernantes fue siempre una de las características de Roma. Un ejemplo de esto fue Licinio Calvo Estolón, tribuno de la plebe en el 377 a.C., que introdujo una fuerte limitación a la acumulación de tierras por parte de un único propietario, además de una severa reglamentación para los deudores, pero luego fue acusado de haber violado sus propias leyes.

Las «quaestiones perpetuae»

Durante el periodo republicano (509 a.C. - 27 a.C.), el propio sistema electoral facilitaba, de hecho, la corrupción, que se agravó a partir de la expansión territorial y marítima producida después de la Segunda Guerra Púnica. Los gobernadores comenzaron a enriquecerse sin escrúpulos a través del cobro de impuestos excesivos y la apropiación de dinero de la administración pública. Como denunció en aquella época el historiador romano Salustio, «los poderosos comenzaron a transformar la libertad en licencia. Cada cual cogía lo que podía, saqueaba, robaba. El Estado era gobernado por el arbitrio de unos pocos».

La primera ley que se estableció fue la «Lex Calpurnia» (149 a.C.), como consecuencia del abuso del gobernador de la provincia de Lusitania, Servio Sulpicio Galba, al que se acusó de malversación de fondos y fue juzgado por un jurado procedente de la orden senatorial, algo que era toda una novedad. Sin embargo, esta primera ley no imponía ninguna pena pública, sino la devolución del dinero que había sustraído.

En el 123 a.C., se establecieron una serie de tribunales permanentes, llamados «quaestiones perpetuaes», cuyo cometido fue el de investigar todas estas malas prácticas y extorsiones de los gobernadores provinciales que habían sido denunciadas por los ciudadanos. Al principio no tuvieron el éxito deseado, pero fueron importantes porque con ellos se definió legalmente el «crimen repetundarum», que hizo alusión a los delitos de corrupción, cohecho o tráfico de influencias.

Este sistema se fue perfeccionando con la definición de nuevos delitos. El «crimen maiestatis», por ejemplo, definía los abusos de poder por parte de los senadores y magistrados. Era considerado el acto más grave contra la República y fue castigado, incluso, con la pena de muerte o el exilio voluntario. El «crimen peculatus» hacía referencia a la malversación y apropiación indebida de fondos públicos por parte de un funcionario, así como la alteración de moneda o documentos oficiales. O el «crimen ambitus», que describía la corrupción electoral, especialmente la compra de votos.

Leyes anti-corrupción

Todos estos y otros delitos trajeron consigo nuevas leyes, que querían dar respuesta a los diferentes cambios políticos, económicos y morales que se iban produciendo. La «Lex Acilia» –que apareció al mismo tiempo que los «quaestiones perpetuaes»–, subió la pena para los delitos de malversación de fondos y cohecho de la «Lex Calpurnia», estableciendo una multa del doble del valor del daño causado por el funcionario. Es una de las más conocidas, porque se ha conservado gran parte de su texto original.

ferrangarreta.com_lictorsarm.2g..jpgOtras leyes importantes fuero la «Lex Sempronia» (122 a.C.) o la «Lex Servilia de Repetundis» (111 a.C.), que establecieron penas más severas para los delitos de cohecho. La segunda, en concreto, fue la primera ley que introdujo la pérdida de los derechos políticos. Ambas fueron completadas con otras como la «Lex Livia Iudiciaria» (91 a.C.), que impuso una corte especial para los juicios contra los jueces corruptos que hubieran cometido extorsión, o la «Lex Cornelia», que aumentaba las condenas para los magistrados que aceptaran dinero en un juicio por cohecho. Esta última debe su nombre al dictador Lucio Cornelio Sila, que la estableció tres años antes de morir.

La corrupción, sin embargo, seguía imparable. En esta época, el gobernador de Sicilia, Verres, se convirtió de alguna manera en el arquetipo originario del «corruptócrata» incorregible. Se calcula que robó al erario público más de cuarenta millones de sestercios y depredó literalmente su provincia. Y no fue una excepción. El mismo Cicerón, que no le tenía especial simpatía y se esforzaba en presentarlo como un caso claro de avidez de poder, afirmó, por el contrario, que su conducta representaba la norma en buena parte del imperio romano.

Julio César, en las puertas del Tesoro

Cuando aún era cónsul, Julio César fue el que propuso la última y más severa ley republicana contra los delitos de corrupción, la «Lex Iulia», que incluía penas de multas desorbitadas y el destierro. Es curioso que fuera él, pues poco antes no había dudado en recurrir a cualquier medio para acceder al consulado. «Cuando el tribuno Metello trató de impedirle que tomase dinero de las reservas del Estado, citando algunas leyes que vetaban tocarlo, él respondió que el tiempo de las armas es distinto al de las leyes… y se encaminó hacia las puertas del Tesoro», contó de él el historiador Plutarco. Eso no le impidió establecer más de cien capítulos en su ley, la mayoría de ellos destinados a los magistrados e, incluso, jueces que se hubieran dejado sobornar para favorecer a un acusado en un delito de corrupción.

El contenido de todas estas leyes demuestra el grado de corrupción que se vivía en Roma. Con la llegada del Imperio en el 27 a.C., éste no solo no se redujo, sino que se incrementó. Los políticos siguieron sobornando a los funcionarios para conseguir puestos en la administración, mientras que a los ciudadanos se les asfixiaba cada vez con más impuestos y se veían obligados a pagar propinas a cambio de que se les agilizara algún trámite solicitado.

A partir de Augusto, el erario público fue perdiendo importancia e independencia, al ser sustituido por la caja privada del emperador. Esto facilitó, sin duda, la corrupción, a la que se intentó poner remedio. Durante la época del emperador Adriano (24-76 d.C.), por ejemplo, se amplió «crimen repetundarum» a todos los actos de malversación realizados por los funcionarios públicos y los sancionó incluso con penas de muerte. Y junto a este crimen, aparecieron otros como la «concussio» (concusión), una de las prácticas favoritas de los gobernadores provinciales, consistente en exigir a los ciudadanos una contribución no establecida por la ley o aumentar otra sí existente de manera desorbitada.

Pero la historia de Roma parece que ya había sido escrita por el escritor y político romano Petronio, cuando se preguntó, impotente, en el siglo I: «¿Qué pueden hacer las leyes, donde sólo el dinero reina?».

Fuente: ABC

samedi, 08 novembre 2014

Virgilio ed Enea: l’etica dell’origine che è destino

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Virgilio ed Enea: l’etica dell’origine che è destino
 
Valerio Benedetti
 
Ex: http://www.ilprimatonazionale.it

samedi, 18 octobre 2014

Les États des peuples et l'empire de la nation

Archives - 2000
 
Les États des peuples et l'empire de la nation
 
par Frédéric KISTERS
 
Armee_arcConstantinSud.jpgIl existe une confusion permanente entre le mot « nation » qui désigne une association contractuelle de personnes liées à une constitution et la notion de « peuple » qui renvoie à une identité, c’est-à-dire un fait donné, une appréhension de soi résultant de l’histoire. Le peuple est donc le produit du déterminisme — nous ne décidons pas de notre appartenance —, tandis que la nation est le résultat volontaire d’un choix — nous élisons notre citoyenneté.
 
Peuples et Nation
 
Le peuple est un produit de l’histoire dont les membres ont le sentiment de partager un passé et des valeurs communes. Pour le définir, on utilise généralement 4 critères principaux : la langue, la culture, le territoire, les relations économiques. Isolé, aucun de ces critères ne semble suffisant. Si l’on octroyait le rôle principal à la langue, il faudrait en conséquence accepter que les Français, les Suisses romans, les Québécois ainsi que les francophones de Belgique et d’Afrique forment un peuple. Pareillement, les Flamands et les Néerlandais ne se sentent-ils pas de culture différente ? Dans la culture, nous intégrons la religion qui en est un des aspects. De plus, la culture influe sur la manière de vivre la religion : les Albanais et les Arabes saoudites ont des visions très différentes de la foi musulmane. La plupart des peuples occupent un territoire plus ou moins cohérent ; il est en effet difficile de maintenir des liens sans proximité. Il faut toutefois noter quelques exceptions telles que les Juifs avant la création d’Israël ou les tribus nomade. De même, les populations immigrées maintiennent un communauté et conservent des liens étroits avec leur patrie d’origine. Enfin, l’existence d’un peuple suppose des relations économiques privilégiées entre ses membres. L’ensemble de ces traits devrait permettre d’esquisser les linéaments de l’idiosyncrasie d’un peuple ; pourtant, son image apparaît souvent floue, parce que critères utilisés pour en préciser les contours ne sont pas assez formels. En réalité, un sujet qui a une histoire ne peut se définir, puisqu’il se modifie sans cesse.
 
Quant à la nation, selon la définition de Sieyès (1), elle est une communauté légale qui possède la souveraineté. Si l’expression « la nation est une et indivisible » signifie que l’ensemble de ses membres détient la souveraineté et que chacun se soumet aux mêmes lois, elle n’implique toutefois pas nécessairement que les citoyens habitent dans un territoire circonscrit ou aient des relations économiques. Les étrangers qui n’adoptent pas la citoyenneté de leurs pays d’accueil ne sont pas des citoyens à part entière, même s’ils jouissent d’une partie des droits civiques. Une communauté de langue et de culture n’induit pas non plus une citoyenneté partagée. Enfin, la nation a conscience de son existence et puise dans son histoire les éléments symboliques qui renforcent sa cohésion, expliquent ses avatars et justifient l’intégration d’individus ou de peuples étrangers.
 
Deux conceptions du nationalisme
 
Par conséquent, le terme nationalisme possède deux acceptions contradictoires selon qu’il se réfère à l’idée de peuple ou à la notion de nation. Dans le premier cas, il fait appel au sang, au sol, aux ancêtres, au passé, c’est un nationalisme de l’héritage qui se réduit souvent à un fallacieux sentiment de supériorité sur les autres et qui, de plus, porte sur un objet de taille limitée. Par ailleurs, peu de choses distinguent le nationalisme du régionalisme qui désigne un sentiment semblable projeté sur un objet plus restreint. Dans le second cas, il transcende l’individu et l’arrache au déterminisme de son milieu. On adhère de manière volontariste à la nation pour réaliser un projet en commun, mais on appartient au peuple de ses parents. Au contraire, la nation possède une faculté d’extension illimitée, car elle peut toujours accueillir de nouveaux membres en dehors des considérations de naissance. Notons enfin que ces deux formes de nationalisme peuvent plus ou moins se recouper et se renforcer au sein d’un même État.
 
État et Empire
 
Pour accéder à la souveraineté, le(s) peuple(s) doive(nt) constituer une nation et se donner une structure : l’État qui arbitre les intérêts contradictoires des citoyens, assure leur sécurité et rationalise le devenir de la société. Dans l’histoire, nous rencontrons deux grands types d’États ; d’une part, ceux issus d’un peuple qui avait une conscience subjective de sa réalité et qui se sont dotés d’une structure objective — l’État français par ex. ; d’autre part, les nations forgées au départ de peuples épars, tel que l’Autriche-Hongrie, qui portent souvent le nom d’Empire. Dans les deux situations, il faut à l’origine une volonté agrégative qui peut être incarnée par un monarque, une institution ou un peuple fédérateur.
 
En réalité, jamais l’État-nation n’a coïncidé dès son origine avec une exacte communauté de langue et de culture. Le préalable n’est pas l’unité culturelle ; au contraire, c’est la nation qui unit le(s) peuple(s) et non l’inverse. L’État, par l’action de son administration centralisée et de son enseignement, harmonise les idiomes et les comportements sociaux. L’existence d’un territoire unifié sous une même autorité facilite aussi les déplacements et donc les mélanges de populations hétérogènes. Des affinités culturelles peuvent inciter les hommes à se regrouper au sein d’une nation, mais cette dernière entreprend à son tour l’élaboration d’une nouvelle « identité nationale ». Surtout, l’histoire n’a jamais vu une nation se former sur base d’intérêts économiques, c’est pourquoi nous pensons que l’Union européenne emprunte un mauvais chemin.
 
aquilifer_16894_lg.gifL’État-nation, dont la France est l’archétype, désire l’égalité, l’uniformité, la centralisation ; il établit une loi unique sur l’ensemble de son territoire. Il ne reconnaît pas la diversité des coutumes et tend à la suppression des différences locales. Il suppose que tous les peuples sous son empire adoptent les mêmes mœurs et s’expriment dans sa langue administrative.
 
Au contraire, l’Empire doit compter avec les différents peuples qui le compose et tolère une relative diversité législative en son sein. De même, il ne jouira pas nécessairement d’une autorité égale sur chacune de ses provinces. Certaines d’entre-elles peuvent être presque indépendantes (comme par exemple les principautés tributaires de l’Empire ottoman), tandis que d’autres sont totalement soumises au gouvernement central. Parfois, l’on vit même des peuples érigés en nations cohabiter dans le même Empire (vers sa fin, l’Empire austro-hongrois comprenaient une nation « hongroise », une nation  « allemande » et divers peuples slaves). Notons enfin que, de notre point de vue, il n’existe pas actuellement de souverain européen, mais bien des institutions européennes qui agissent avec le consentement de plusieurs nations.
 
Droit de vote ou citoyenneté
 
Par ailleurs, se pose aujourd’hui la question du droit de vote des étrangers. Nos dirigeants disputent pour savoir si nous octroierons le droit de vote aux seuls Européens, et sous quelles conditions, ou si nous l’étendrons aux ressortissants non-européens. À notre avis, le problème est mal posé. En effet, le droit de vote, réduit aux communales qui plus est, n’est jamais qu’une part de l’indivisible citoyenneté, qu’on la dissèque ainsi en créant des sous-catégories dans la société nous semble malsain, car cela nuit à l’unité de la nation en dégradant le principe d’égalité des citoyens devant la Loi. De plus, la citoyenneté implique aussi des devoirs dont le respect garantit nos droits. Dans le débat, d’aucuns proposent d’accorder la citoyenneté belge plutôt que le droit de vote. Sans hésiter, nous allons plus loin en soutenant un projet de citoyenneté européenne. Dans cette entreprise, nous nous appuyons ; d’une part, sur l’œuvre majeure (2) d’un grand penseur politique, Otto Bauer, le chef de file de l’école austro-marxiste ; d’autre part, sur un précédent historique : le concept de double citoyenneté dans l’Empire romain.
 
Otto Bauer articulait sa thèse autour du concept de « communauté de destin » grâce auquel il donna une nouvelle définition de la Nation. Selon lui, la culture et la psychologie permettent de distinguer un peuple d’un autre, mais ces caractères sont eux-mêmes déterminés par l’Histoire. Suivant ses vues, le peuple ne se définit plus par une appartenance ethnique, une communauté de langue, l’occupation d’un territoire ou en termes de liens économiques, mais bien comme un groupe d’hommes historiquement liés par le sort. Dès lors, dans cet esprit, les habitants d’une cité cosmopolite, issus d’origines diverses mais vivant ensemble, peuvent fort bien, dans certaines circonstances historiques, former une nation. Évidemment, il existe une interaction permanente entre le « caractère » et le destin d’un peuple, puisque le premier conditionne la manière de réagir aux événements extérieurs, aussi la nation est-elle en perpétuel devenir.
 
Ainsi, Bauer justifiait le maintien d’un État austro-hongrois par la communauté de destin qui liait ses peuples depuis des siècles. Une législation fédérale aurait protégé les différentes minorités et garanti l’égalité absolue des citoyens devant la Loi qu’il considérait comme la condition sine qua non de la bonne intelligence des peuples au sein de l’État.
 
Dans cette perspective, la conscience du passé partagé n’exclut pas le désir d’un avenir commun. Pour notre part, nous aspirons à une nation européenne dans laquelle fusionneraient les peuples européens.
 
Dans l’Empire romain, il existait un principe de double citoyenneté. Jusqu’à l’édit de Caracalla (212 ap. JC), la citoyenneté romaine se surimposait à l’origo, l’appartenance à son peuple. Évidemment la première conservait l’éminence sur la seconde. Néanmoins, le Romain pouvait recourir, selon les circonstances, soit au droit romain soit aux lois locales. Lorsque l’empereur Caracalla donna la citoyenneté romaine à tous les hommes libres de l’Empire, ceux-ci conservèrent néanmoins leur origo (3). Aussi pensons-nous, qu’il serait possible de créer une citoyenneté européenne qui, durant une période transitoire, coexisterait avec les citoyennetés des États membres. En effet, l’homme n’appartient qu’à un seul peuple, mais il peut élire deux nations, du moins dans la mesure où leurs lois ne se contredisent point et à la condition qu’on établît une hiérarchie entre ses deux citoyennetés et que l’on donnât la prééminence à l’européenne.
 
► Frédéric Kisters, Devenir n°15, 2000.
 
◘ Notes :
  • [1] Sur l’abbé Sieyès, cf. BREDIN (Jean-Denis), Sieyès, La clé de la révolution française, éd. de Fallois, 1988.
  • [2] BAUER (Otto), Die Nationalitätfrage und die Sozialdemokratie, Vienne, 1924, (1er éd. 1907), XXX-576 p. (Marx Studien, IV). Edition française : ID. , La question des nationalités et la social-démocratie, Paris-Montréal, 1987, 2 tomes, 594 p.
  • [3] JACQUES (François) et SCHEID (John), Rome et l’intégration de l’empire (44 av. J.C. - 260 ap. J.C.), tome 1 Les structures de l’empire romain, Paris, 2e éd. 1992 (1er : 1990), p. 209-219 et 272-289 (Nouvelle Clio. L’Histoire et ses problèmes).
 

mercredi, 10 septembre 2014

Chute de l’Europe, chute de Rome… bis repetita ?

L’Histoire présente fréquemment des situations relativement similaires à quelques siècles ou millénaires d’écart, comme si certains événements devaient fatalement se réaliser pour marquer quelques cycles et effectuer quelques retours, au point que certains passages de l’histoire semblent parfois littéralement se répéter.

Ce pourrait être le cas de l’histoire actuelle de l’Europe et de sa civilisation, apparemment en déclin, mise en parallèle avec l’effondrement de Rome (de l’empire romain et de sa civilisation), augurant du pire pour notre époque si la répétition des symptômes n’était effectivement pas fortuite. A vrai dire, les points communs sont même ici assez impressionnants de par leur quantité ainsi que par la qualité de leur ressemblance. Et ça n’est évidemment pas bon signe.

Voyons à présent ces signes, les aspects de ce syndrome crépusculaire, issus des connaissances actuelles, et ne nous gardons pas de les mettre en parallèle avec notre époque :

Des problèmes démographiques chez les autochtones, pas chez les barbares

Apparition de la tentation de l’enfant unique, guerres, épidémies, difficultés économiques… le déclin de la population romaine et italienne autochtone (se faisant surtout sentir à partir du 3ème siècle après J.C.), malgré différentes politiques de natalité importantes, serait selon certains auteurs l’une des causes principales de la chute de la civilisation romaine. La natalité chez les classes supérieures est particulièrement faible. Ce phénomène aurait eu pour effet d’augmenter sévèrement le besoin de "main d’oeuvre" étrangère, recherchée en particulier chez les "barbares" (dont on avait en fait grossit le trait à l’époque et qui n’étaient pas si barbares) Celto-Germains. A partir du IVème siècle la natalité remonterait finalement, mais le phénomène serait en grand partie dû aux allochtones présents sur le territoire. Le déclin démographique concernerait donc les "latins de souche" (avec tout ce que cette expression a d’approximatif) tandis que la démographie des barbares se maintiendrait largement, engendrant finalement le retour d’une démographie à croissance positive. Ainsi les Romains s’affaiblissent en nombre au point de ne plus pouvoir se prémunir contre les invasions, et les allochtones deviennent-ils de plus en plus présents, de par les invasions ou les échanges au sein de l’espace, au point qu’ils constituent plus 50% des états-majors vers 380.

Tout cela n’est pas sans rappeler l’époque actuelle de l’Europe, où la démographie, tout simplement catastrophique, imposerait (selon certains) d’avoir recourt à une immigration massive. Depuis que l’on en sait un peu plus sur les statistiques de la natalité en Europe, on sait que si celle-ci se maintient à peu près dans certains pays (France, Irlande) ou limite sa chute dans les autres, c’est en fait en grande partie dû aux allochtones qui "comblent le manque", un peu comme en Italie de l’époque, au point que ceux-ci deviennent de plus en plus présents.

Une crise économique majeure

Dans les derniers siècles de l’empire la crise économique se fait sans cesse plus forte. L’argent, comme les hommes, manque de plus en plus pour composer des armées, renforcer et surveiller les frontières, besoin pourtant de plus en plus vital pour se protéger d’invasions sans cesse plus fréquentes. L’argent manque aussi pour entretenir les monuments et les temples, surtout lorsque la religion perd petit à petit sa place. L’argent manque bientôt pour continuer à organiser des jeux et spectacles… Si l’empire craque de tous côtés, c’est autant démographiquement qu’économiquement, et l’on continue dans l’immédiateté de le nourrir de plus d’étrangers encore.

Curieux point commun avec notre époque, où la crise économique fait rage et où l’on ne trouve pas d’autres solutions que ces idées d’immédiateté : sacrifice total du budget de l’armée, compensation par une main d’œuvre immigrée sans cesse croissante, limitation de plus en plus drastique de l’entretien du patrimoine (en particulier dans les pays les plus touchés par la crise où beaucoup de monuments sont abandonnés) etc., tandis que les mosquées poussent comme des champignons.

Des barbares qui refusent l’intégration et imposent leur loi

En fait, cela n’est pas réel immédiatement. Au départ, lorsque la civilisation romaine est encore puissante, les "barbares", européens de souche certes différenciée par les millénaires mais indo-européenne tout de même, sont plutôt bien intégrés, en particulier chez les élites, bien que certaines continuent de jouer un double jeu en servant tantôt les intérêts du peuple d’origine et tantôt les intérêts de Rome (comme le Goth Alaric). Certains sont aussi tentés par l’ascension politique. Les "barbares" se romanisent, les puissants leur font souvent confiance. C’est lorsque les forces de l’empire s’épuiseront, par contre, que les barbares refuseront de plus en plus de "s’intégrer" (pour utiliser une terminologie actuelle) à la culture autochtone, au point de finir par la rejeter et, finalement, d’y imposer leurs propres spécificités culturelles (surtout après 410), de désirer germaniser le monde latin. Petit à petit, certains, dotés d’une armée majoritairement allochtone (mercenaires embauchés faute de soldats romains, etc.) prennent le pouvoir sur la terre dont leur était confiée la défense, et grignotent ainsi du territoire. Et pour résister aux barbares, l’empire fera appel à encore d’autres barbares, et ainsi de suite.

Cela n’est pas sans rappeler l’état actuel de l’Europe, de plus en plus affaiblie dans ses valeurs et en particulier dans sa volonté d’imposer son modèle à l’arrivant, bref, dans sa volonté de pérennité en général. Poussés par le nombre, la densité et l’importance de la différence culturelle, un nombre sans cesse croissant d’immigrés d’origine extra-européenne refuse en grande partie voire intégralement de s’intégrer à la culture autochtone, au point, finalement, de finir par la rejeter et d’imposer ses propres règles, par la multiplication des revendications que l’on sait et la simple pression de la vie communautaire. On pourra même faire le parallèle, à petite échelle (pour l’instant ?), entre les prises de territoires par les barbares au sein de l’empire romain et les nouvelles zones de non-droit en Europe (songez par exemple ne serait-ce qu’à ce quartier "Shariah controlled zone" à Londres).

Les nouveaux goûts pour la paresse et les plaisirs immédiats

Vers 400, Ammien Marcellin décrit ainsi les romains : "Le peu de maisons où le culte de l’intelligence était encore en honneur sont envahies par le goût des plaisirs, enfants de la paresse [...]. Les chanteurs ont chassé les philosophes, et les professeurs d’éloquence ont cédé la place aux maîtres en fait de voluptés. On mure les bibliothèques comme les tombeaux. L’art ne s’ingénie qu’à fabriquer des orgues hydrauliques, des lyres colossales, des flûtes, et autres instruments de musique gigantesques, pour accompagner sur la scène la pantomime des bouffons", etc.

Comment ne pas songer à l’enfouissement de notre actuelle civilisation dans la société des plaisirs et de l’immédiateté ? Dans la consommation individualiste et la jouissance ? Dans le relativisme et le refus de la réflexion réellement humaniste ? Dans le rejet de la culture classique remplacée par le gavage médiatique facile, acculturé et mondialisé ? Dans la dégradation de l’exigence de l’enseignement ? C’est sans difficulté que l’on rapproche ce signe de décadence à celui de notre époque, bien que celui de Rome ait peut être pris plus de temps pour évoluer.

L’explosion des incivismes

"L’incivisme est en train de tuer Rome", ainsi s’exprime déjà Tacite vers le 1er siècle après J.C. Le citoyen romain semble évoluer dans le mauvais sens, dégradant les bâtiments et fraudant l’état. Plus tard, la montée du rejet de la culture autochtone et l’apport d’us et coutumes jugés barbares contribueront à cette sensation d’incivisme généralisé. Une partie des barbares puis, plus tard, des chrétiens, se déclarent en détestation face aux normes et à la morale romaine classique. La citoyenneté devient accessible pour tous tandis que la sécurité fait largement défaut. Les monuments, considérés comme dépassés, ne sont plus vus comme précieux et sont bientôt pillés par les envahisseurs et dénigrés par les citoyens ou les visiteurs.

Le parallèle est vite effectué avec notre époque et son explosion soudaine de l’incivisme (en quelques décennies) corrélée (correspondance temporelle, géographique et vérification par les statistiques judiciaires) avec la montée soudaine d’une immigration massive aux meurs très différentes, ne pouvant s’assimiler, refusant partiellement de s’intégrer et dont une partie (que l’on sait) est même en détestation méprisante vis à vis de l’occident (païen comme chrétien). Autre parallèle aisé à effectuer : la facilité d’acquisition de la citoyenneté (surtout pour les extra-européens car je connais les difficultés rencontrés par un russe, par exemple, même diplômé et parlant français) et la baisse sensible de la sécurité.

Crise spirituelle et disparition de l’ancienne religion

L’ancienne religion païenne connait une crise importante qui conduira à sa disparition : d’abord faute de financements, puis par rejet de la part d’une population de plus en plus chrétienne, au point qu’après quelques temps c’est le culte païen qui nécessite un édit de tolérance pour être pratiqué. Or ce système religieux, constitué d’idoles multiples, est une partie fondamentale de la société comme de la culture de l’ancien empire romain (une morale commune, des rites partagés, parfois une histoire originelle mythique, une part de la culture et de la pensée, etc.). C’est un des socles et un des constituants de son identité, bien qu’il adoptera finalement plutôt bien le christianisme, qui grâce aux pères de l’église, utilisera pour socle le classicisme gréco-romain. Un jour, en 331, on décrète l’inventaire des biens des temples païens, puis l’interdiction de certaines parties du culte, entraînant la fermeture de certains temples, jusqu’à ce qu’un jour on mette définitivement fin à l’ancien culte et toutes les subventions et privilèges sont retirés, pour aboutir, détail intéressant, au retrait des jours "fériés" païens. Paradoxalement durant le IVème siècle, en parallèle, on continue d’adorer certains dieux et de s’offrir des cadeaux "païens" au jour de l’an, ou de pratiquer le culture des ancêtres (chez les sénateurs par exemple ou les cercles cultivés), comme une survivance identitaire, une ultime résistance qui aura quelques sursauts avant la fin du IVème siècle. L’ancien culte mettra plus de temps à disparaître dans les campagnes, où il est plus enraciné dans la terre, mais dans les villes les temples sont abandonnés ou détruits, faute de budget et d’intérêt, ou encore reconvertis pour la nouvelle religion.

De nombreux points communs avec notre époque semblent ici aussi relativement évidents. A commencer par le sort de "l’ancienne" religion officielle : par des causes et pour des raisons différentes, les mêmes fatalités s’abattent sur la religion dominante, à savoir une religion dont on retire l’aspect officiel, puis dont on fait l’inventaire des biens (ouverture aux possibilités de confiscations) comme à la révolution, dont on supprime tous les financements officiels ainsi que les privilèges. La religion passe d’officielle à tolérée. Le manque de financements et d’intérêt entraîne la destruction de plus en plus d’églises tandis que des demandes sont formulées pour en réutiliser pour la nouvelle religion, au risque de choquer. Puis monte l’intolérance, petit à petit, comme les très nombreux événements plus ou moins médiatiques en témoignent, tandis qu’une nouvelle religion (l’Islam ici) prend de plus en plus de place et se voit de mieux en mieux tolérée, à ceci près que l’Islam est très différente et ne saura réellement faire sa place sans faire table rase et sans dominer, tandis que le christianisme trouvait un terreau fertile en Europe, réutilisait les socles gréco-romains et n’était pas importée avec les hommes qui cette fois se déplacent eux aussi. On remarque au passage des symptômes plus circonscrits mais très parlants là aussi, comme la suppression des fêtes et jours fériés de l’ancien culte, bientôt remplacés par d’autres, ce qui nous fera penser à l’actualité récente et au questionnement qui revient de plus en plus fréquemment de savoir s’il faut supprimer des jours fériés (voire tous) pour des raisons de laïcité féroce ou les remplacer par d’autres (juifs et musulmans) au motif d’un certain égalitarisme un peu antichrétien sur les bords. Enfin, l’ancien culte marque une certaine forme de résistance voire de résurgence au sein d’une partie de la population, comme une sorte d’ultime résistance identitaire.

Le rejet de l’armée et du sentiment de destin commun

Avec les oppositions entre empire d’orient et empire d’occident ainsi qu’avec le brassage de soldats de toutes origines, le sentiment d’appartenir à une même communauté, d’identité et de destinée, disparaît. Le respect pour l’armée disparaît lui aussi, et son importance comme son aspect honorifique, aux yeux du pouvoir comme du peuple, s’effacent au fil des siècles et des réformes. Le budget s’étiole lui aussi. Ajoutons de plus, selon Végèce, la forte diminution de la discipline dans les rangs de l’armée, qui serait due à la majorité de barbares embauchés.

On peut faire un rapprochement avec notre époque, à ceci près que cette quasi détestation de l’armée découle ici de l’Etat et des puissances supra-étatiques (Bruxelles), au point de la faire disparaître, comme si nous n’avions plus rien à protéger (on peut tout de même rapprocher les raisons économiques de ces choix stratégiques). Là où le parallèle est plus fort, cependant, c’est en ça qu’est perdu l’honneur inhérent à l’engagement militaire ainsi que la valeur d’un destin vécu comme commun, tandis qu’un imbroglio d’origines et de cultures le fait fatalement disparaître. La disparition de la discipline à cause de l’étranger est une situation très parlante elle aussi pour notre époque : les insubordinations et autres conflits d’indiscipline au sein même de l’armée n’ont absolument jamais été si élevés que depuis qu’une grosse minorité musulmane y a élu domicile. Ces derniers sont les rois de l’incivisme et de l’indiscipline, le premier état-major venu vous le dira, sinon des chiffres existent.

Des citoyens écrasés d’impôts et qui ne désirent plus s’engager

Une économie en chute et des citoyens écrasés d’impôts et de taxes au point de ne plus vouloir s’engager dans les différents aspects de la société (armée, etc.) et de ne plus faire plus d’un enfant par couple. Cet argent sert en particulier à recruter toujours plus de barbares, en remplacement de soldats romains de qualité manquants, afin de contrer les attaques incessantes de l’extérieur.

La raison n’est pas la même (lutte contre les attaques barbares), mais la méthode et son impact rappellent notre époque : un état dépassé par les événements et qui se perd en impôts et taxes, écrasant, en particulier, le citoyen moyen et donc en majorité l’autochtone qui essaye de s’en sortir. Ces 6 dernières années en France ont d’ailleurs battu absolument tous les records en terme de création de nouvelles impositions.

Des élites qui refusent le changement, se réfugient sur leurs acquis et cherchent des niches fiscales…

Les élites de l’époque romaine, même la crise venant, s’attachent de toutes leurs forces à leurs acquis et leurs privilèges, refusant de fait la réalité et la nécessité des réformes et du changement, et tant pis pour l’avenir de la civilisation. On protège son patrimoine au point de rechercher des "niches fiscales", on continue de se distraire en jeux et spectacles, on se cache les yeux et on se bouche les oreilles par pur égoïsme, allant jusqu’à organiser des groupes de pression.

Si l’expression, dans les faits, et le contexte aidant, en est différente, le principe reste le même : les élites, déconnectées et toujours plus emplies d’un angélisme affiché, se masquent la vue, refusent la vérité de l’état du pays réel et poursuivent ainsi tête baissée, paniquées ou déterminées, que nous courrions ou non vers un mur, puisque ceux-ci auront certainement les moyens de le franchir, la civilisation dût-elle y rester. On remarquera que les élites iront jusqu’à former des groupes de pression, qui ne sont pas sans rappeler les lobbys qui travaillent jour après jour à la continuité et à la perpétuation de leur quête progressiste, relativiste et destructrice. Pendant ce temps, des citoyens s’accrochent à un passé qu’on veut leur arracher. L’immigration, elle, est perpétrée, ne serait-ce que pour les besoins électoraux d’une partie de l’élite.

Le latin s’efface au profit de nouvelles langues

De nouvelles langues, issues du socle latin, font leur apparition et remplacent petit à petit à langue latine en ne la considérant bientôt plus que comme une langue de liturgie, de papiers officiels ou d’élitisme intellectuel. Bref une langue morte mais que l’on ressortirait tout de même quelques fois comme une antiquité intéressante. Ces nouvelles langues naissantes (Français, Italien,…), bien que faisant quelque peu disparaître à l’usage le latin, restent des langues qui y puisent leurs racines, aux tréfonds de ce socle indo-européen commun aussi aux langues celtiques et germaniques.

Dans notre cas, où l’on constate l’apparition de populations de plus en plus importantes conservant leurs langues parmi leurs us et coutumes et ne parlant bientôt plus que celle-ci dans certains quartiers, le tout doublé d’une population autochtone qui parle de plus en plus mal la langue officielle, la ressemblance entre les effets est frappante. Mais les causes sont un peu différentes de l’époque romaine, pas pour le meilleur hélas, car il s’agit cette fois de langues importées qui sont différentes dans leur essence comme dans leur origine (ainsi que dans la culture qui s’y rattache et les racines de celle-ci), nuisant à ce que la continuité de l’enseignement du latin avait réussi à faire jusqu’à présent : renforcer l’identité commune européenne.

Mais la crise actuelle de l’Europe est peut-être encore plus préoccupante

Ainsi peut-on rapprocher le déclin de l’empire romain du déclin actuel de la civilisation européenne. Ce qui est déjà inquiétant en soi. Le problème, c’est qu’il s’agit là peut-être d’une situation pire encore aujourd’hui : à l’époque, il s’agissait de peuples indo-européens qui, bien qu’ayant évolué différemment durant les quelques millénaires précédents, partageaient encore un socle commun et une forte compatibilité ethnoculturelle, tandis que les peuples qui sont importés actuellement possèdent une différence non seulement très grande mais aussi fondamentale, qui touche aux racines. L’autre problème est la fulgurance de l’événement. Là où Rome a mis des siècles à péricliter, tout semble s’accélérer aujourd’hui, se dérouler littéralement à une autre échelle de temps, sensiblement plus fulgurante.

De plus, dans sa chute, Rome ne se sera en fait pas réellement perdue, pas totalement, transmise en continuité par ces peuples qui se sentaient concernés par cette culture et dont ils réutiliseront tous les socles, alors que les changements actuels, qui forcent sur la partie émergée de la culture comme sur ses fondements, possèdent quelques sournois aspects d’irréversibilité. Le changement religieux est différent lui aussi : l’apport de la chrétienté, non dénué de heurts, a été porté par les idées et a trouvé un terreau fertile en terre d’Europe. L’Islam est très différente pour deux raisons : d’abord, celle-ci est importée non seulement par les idées mais surtout par les hommes eux même, en nombre, prenant de la place et refusant par définition de changer, avec une volonté de conquête territoriale qui découle du texte, et d’autre part parce que l’Islam, en plus d’être rigide et non malléable, est en soi très différente jusque dans ses racines. Ainsi ne peut-elle exister pleinement et s’enraciner sans poser de nouvelles fondations sur les lieux de sa présence. Elle nécessite, au moins partiellement, la table rase de la religion en place. D’une manière plus générale, les cultures extra-européennes différentes jusque dans leurs fondements nécessitent fatalement de faire table rase de l’existant pour exister pleinement : d’où les notions, inévitables, de communautarisme et de zones du territoire qui sont "prises" par telle ou telle culture et n’expriment plus que celle-ci. Sans possibilité d’assimilation, à la différence des européens.

Espérons que ces symptômes de déclin, que ce syndrome crépusculaire, ne présage pas de ce dont il semble nous parler. Espérons, sinon, qu’il ne soit pas encore trop tard pour prendre le problème à bras le corps, que l’astre ne se soit pas encore totalement effacé derrière l’occident de l’horizon.

A.C.M

00:05 Publié dans Histoire | Lien permanent | Commentaires (1) | Tags : rome, rome antique, empire romain histoire, déclin, décadence | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

jeudi, 28 août 2014

ISIL: Another Fine Mess, History Repeats Itself

 

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ISIL: Another Fine Mess, History Repeats Itself

I began my day watching the video of the beheading of an American photo journalist, James Foley, 40 years of age, decapitated in the most barbaric, depraved demonstration of cowardice I have witnessed in many years. James Foley was not captured because he was an American but this was the reason he lost his life to ISIL, another creation of Western imperialism.

Two thousand and sixty-seven years ago, in the year 53 BCE, Marcus Licinius Crassus, the wealthiest man in the history of the Roman Empire, decided to ignore the offer of the Armenian King Artavazdes II, to attack the Parthian Empire (part of modern-day Turkey, Iraq and Iran), through Armenia, offering around 40,000 troops of his own to join Crassus’ seven legions. The battle of Carrhae.

James Wright Foley, 40, was kidnapped by an armed gang in Binesh, Syria, on November 22, 2012. A freelance photo journalist, he was making his living by living on the edge, taking pictures in war zones. If he had stayed at home in the USA and not wandered around parts of Syria controlled by terrorists, he would not have been taken but he paid the ultimate price for his audacity.

Whatever the case, the ultimate price for a photo journalist, in no part of the world, can be a decapitation, which is never justified, justifiable or acceptable. In this case, what I witnessed this morning was an act of sheer cowardice, in which a defeated, powerless, unarmed and defenseless man, with his hands tied behind his back, was forced to make an address (probably in return for sparing the lives of other captors) to his family, the American Air Force, who he begged not to bomb the ISIL forces and to his country, ending by saying he wished he was not an American citizen, before having his head cut off by a psychopathic coward hiding behind a mask, wielding a knife in his left hand, and addressing the audience in an accent from southern England (the type of accent one hears, I am told, in the London suburbs of Brixton or Balham).

crassus_image.jpgCrassus (which in Latin means solid, or dense) knew better. He decided to attack the Parthians across the River Euphrates, going head-on into territory which the Parthians knew very well and dominated with their cataphracts, heavily armed horses controlled by skillful horsemen. The tanks of their time. Crassus had seven legions (42,000 infantrymen, divided into 70 cohorts of 600 men, or 420 centuries, each commanded by a centurion), backed up by 4,000 auxiliaries (light infantry) and around 4,000 cavalry. The Parthians were vastly inferior in number, having some 1,000 cataphracts, 9,000 light cavalry archers and around 1,000 supply camels, strategically placed on both flanks and in the center, ably placed by the Spahbod (Field Marshal) Surena, who had an inexhaustible supply of arrows.

Nowhere in any text from the mainstream religions, and this includes the Quran, is the beheading of a photo journalist justified or justifiable. The radical form of Islam which ISIL follows is a blasphemy, an insult to all Moslems the world over and its foot soldiers are nothing more or less than a gang of demented psychopaths, cowards who are happy beheading defenseless and bound captors, raping women and burying children alive.

That said, ISIL (the Islamic State of Iraq and the Levant), or Islamic State (ad-Dawlat al-Islamiyyah) is the result of Western policy.

If the West in general and the United States of America in particular had not created extremists in the Pakistani Madrassah (religious schools), to whip up dissent among the Pashtun in Afghanistan, creating the religious fighters (Mujaheddin) to use against the Soviet-backed progressive Socialist governments in Kabul, which were addressing human rights, women’s rights and children’s rights, creating a socially progressive and inclusive State, there would be no Taliban today.

Marcus Licinius Crassus had been warned not to attack the Parthians in an open and desert terrain with the Roman legion disposed as it was, each one with 6,000 troops divided into 10 cohorts of six hundred men, and these into six centuries of 100 men, the front line being replaced regularly by the second line, the shield in the left hand defending the man on the left and attacking with the sword wielded in the right hand, while ballista (missiles) were fired from behind the lines and the cavalry were placed on the flanks. The Parthians charged their cataphracts and light cavalry against the Roman lines, firing hails of arrows both high and low, then  retreating rapidly as the Romans pursued, firing the “Parthian shot” over their shoulder, as they withdrew, killing more unsuspecting Romans as they attacked without their shields in position.

If the West in general and the United States of America and United Kingdom in particular had not destabilized Iraq, removing the Sunni-based Government of Saddam Hussein, the country would not have imploded into what we see today, remembering the backbone of ISIL is some of the Ba’athist Sunni forces who supported Saddam Hussein.

If the West in general and the FUKUS Axis (France-UK-US) in particular had not destabilized Libya, removing the Jamahiriya Government of Muammar al-Qathafi, the country would not be living the nightmare it is living today, with rival gangs attacking each other, city fighting against city and a mosaic of fragmentation. This, in a country which enjoyed the highest Human Development Index in Africa. For the USA, NATO and the FUKUS Axis, this matters not.

Marcus Licinius Crassus pressed ahead. After all, he was the wealthiest man in Rome, and in Roman history, possibly in the world judging by today’s standards, he was 62 years old and thought he could do no wrong. After all, he had defeated Spartacus, and was Patron to none other than Caius Julius Caesar. The result was the almost total annihilation of Crassus’ seven legions, with just a few hundred Parthians killed.

And let us not forget that the policy of the West has been to foment terrorist acts and use terrorism as a means of toppling Governments in Iraq, in Libya, and the failed attempt to do so in Syria, just as in the imperialist past the policy was to identify the second most important power group in a country (the main force outside Government), elevate it to a position of power and then use it as a means to implement imperialist policies (because without outside aid, that group would never have been understood to be the point of equilibrium in that society).

There is a reason why Governments are in power and that is because under the leader, there are groups which keep him/her there, as the point of equilibrium. In Iraq’s case, it was the Sunni Moslem group, represented today by ISIL. Saddam Hussein had understood that, two hundred thousand million dollars, and up to a million lives, ago. The West, in its habitual yearning for intrusion and meddling, chose whom? The Shia, the second most important power group outside the Government.

So we can conclude that ISIL is a monster created by Western intrusion. Saddam Hussein did not have Weapons of Mass Destruction, as he himself said. The one telling the truth was President Hussein and the one lying through his teeth was President Bush. Everyone knew so at the time, and the USA and UK were warned. Many times, by Russia, by journalists the world over, by myself. They pressed ahead… and why should people let up now?

Marcus Licinius Crassus lost the battle, lost his life, lost his son Publius Licinius Crassus and once and for all saw Rome’s Eastern frontier fixed on the western border of an area the Romans neither knew nor understood. Carrhae was a game changer.

As usual, another fine mess those who control foreign policy in Washington and London have created, in their utter wisdom. The way forward is not to gloat over deaths of one side or another – the loss of any human (or animal) life is a tragedy, no mother likes to lose her son, nobody likes to lose a brother, or a father, or a spouse. Tears cast at funerals taste of salt and here we are speaking of the death of James Foley, murdered by a coward with a knife, the death of Iraqi civilians murdered by a coward in the sky dropping bombs from 30,000 feet, the death of Syrian civilians murdered by Western-backed terrorists, the death of Libyan women and children murdered with their breasts sliced off in the street, being impaled with iron rods or gang-raped to death…by formerly Western-backed terrorists. The death of some 100-500 Parthian horsemen and around 40,000 Roman legionaries. They cried back then too.

The common denominator in all this is a four-letter word, West, its policy implemented in most cases by another four-letter acronym, NATO.  The four-letter word, Rome, dominated classical history for almost one thousand years.

Finally, how to reconstruct a State which has been clinically destabilized to the point whereby its society has been reduced to rubble? The answer is the further Western fingers are kept away, the better, expect perhaps to finance the mess they have made and allow the members of the societies it destroys to run their own affairs. While NATO countries spend trillions of dollars every decade in their futile and criminal, murderous acts of intervention, there are children in this world without access to safe water or secondary education. The Romans at least tried to civilize the territories they conquered and respected the local authorities, by and large.

James Foley died because he was wandering around a war zone crawling with terrorists backed by the West and because his country failed him by creating the monsters who took his life in such a barbaric manner. The dignity with which he faced his own death, knowing what was about to happen to him and the strength in his voice as he delivered his last words are perhaps the confirmation that he did so having bargained for the lives of other captives and this is something for his family and loved ones to remember in their moment of grief. Whether or not his captors kept their word is another question.

Marcus Licinius died because he made a crass mistake.

Reprinted from Pravda.ru.

lundi, 16 juin 2014

Imperium statt Nationalstaat

Imperium statt Nationalstaat

Interview mit David Engels

von Johannes Schüller

Ex: http://www.blauenarzisse.de

David Engels, Deutschbelgier und Brüsseler Professor für Römische Geschichte, hat 2013 in Frankreich einen vieldiskutierten Bestseller zur Zukunft Europas veröffentlicht. Ein Gespräch über historische Parallelen.

 

Blaue​Narzisse​.de: Ihre These vom Niedergang des Westens und seinen Analogien zum Niedergang Roms erinnert stark an Oswald Spenglers Untergang des Abendlandes. Doch der große Kollaps blieb aus. Warum sollte er ausgerechnet jetzt, in einer doch recht stabilen Phase des Friedens, eintreten?

David Engels: Spengler zählt tatsächlich, neben Friedrich Nietzsche, Thomas Mann und C. G. Jung, zu den Denkern, denen ich am meisten verdanke. Seine Geschichtsmorphologie halte ich jedoch auch in vielen Punkten für korrekturbedürftig und ausbaufähig. Wenn wir vom Niedergang oder gar Untergang reden, sollten wir uns allerdings daran erinnern, dass Spengler einmal ausdrücklich erklärt hat: „Es gibt Menschen, welche den Untergang der Antike mit dem Untergang eines Ozeandampfers verwechseln. Der Begriff einer Katastrophe ist in dem Worte nicht enthalten. Sagt man statt Untergang ‚Vollendung’ (…), so ist die ‚pessimistische’ Seite einstweilen ausgeschaltet, ohne dass der eigentliche Sinn des Begriffs verändert worden wäre.”

Es geht also nicht um einen spektakulären „Kollaps”, der sich auf Jahr und Tag berechnen ließe. Stattdessen bleibt die Annahme entscheidend, dass auch Europa, wie jede andere Kultur, den morphologischen Vorgaben einer etwa tausendjährigen Kulturentwicklung unterliegt. An deren Ende stehen unweigerlich Verflachung, Entgeistigung, Niedergang und Rückfall in frühzeitlichen Atavismus.

Übrigens: Von „Frieden“ würde ich nicht wirklich sprechen wollen. Bedenken Sie, dass es gerade einmal 20 Jahren her ist, dass der Kalte Krieg beendet wurde, der uns nur im Rückblick fälschlicherweise als langer „Frieden“ erscheint. Und wenn ich an die schrecklichen Kriege zwischen den jugoslawischen Teilstaaten und an den momentan sich in der Ukraine abzeichnenden Bürgerkrieg denke, kann unser Kontinent kaum als wirklich befriedet gelten. Freilich führen die wichtigsten Staaten, die heute die EU ausmachen, seit 1945 keine Kriege mehr gegeneinander. Dass sie dies jedoch fast jeden Tag erneut als einzige Legitimation ihrer Existenz feiern, und das bis zum Abwinken, halte ich für geradezu grotesk. Auch die USA haben den nordamerikanischen Kontinent seit 1865 „befriedet” ohne hierin ihre historische Aufgabe als erschöpft zu betrachten.

Wie könnte sich der Untergang der EU real gestalten?

Zum Glück sind wir ja noch nicht so weit, dass schon vom „Untergang” die Rede sein muss. Es handelt sich vielmehr, in Analogie zu den Ereignissen des 1. Jahrhunderts v. Chr., um den „Übergang” einer demokratisch verbrämten, scheinhumanistisch unterfütterten und ultraliberalen Oligarchie in eine imperiale Staatsform. Erstere erweist sich als immer unbeweglicher, instabiler und unbeliebter; letztere dagegen stellt einen vielversprechenden Kompromiss zwischen den scheinbar unvereinbaren Extremen technokratischen Managements und plebiszitärer Radikaldemokratie dar.

Und wenn wir ehrlich sind, hat dieser Prozess ja schon lange begonnen, bedenkt man, wie überall in der EU die demokratische Maske fällt: Volksabstimmungen werden entweder ignoriert oder wiederholt, wenn das Resultat politisch unerwünscht ist, denken Sie nur an die Skandale um die europäische Verfassung, defizitäre Staaten werden, wie Griechenland, unter Provinzialverwaltung gestellt, und die EU-​Verträge sehen noch nicht einmal ein klares demokratisches Prozedere für die Ernennung des Präsidenten der Kommission vor.

Was noch fehlt, um die Analogie zu Rom perfekt zu machen, ist lediglich die konservative Wertewende und die Rückkehr eines in der Geschichte gründenden europäischen Sendungsbewusstseins. Und schon werden wir erneut in einem quasi augusteischen Staatswesen leben. Ob sich diese Wende, die sich ja schon überall im Bedeutungsanstieg traditionalistischer Parteien abzeichnet, nun freilich von innen heraus vollziehen wird, oder es erst einer jahrzehntelangen schweren Krise bedarf, ist offen. Um unseren Kontinent steht es jedenfalls äußert schlecht, denken wir etwa an Deindustrialisierung, Arbeitslosigkeit, Überalterung, Bevölkerungsschwund, Masseneinwanderung, Kapitalflucht, explodierenden Sozialbudgets und die chronische Unfähigkeit unseres politischen Systems, über eine einzige Legislaturperiode hinaus wirklich langfristig und umfassend angelegte Reformplänen zu realisieren. Deshalb tippe ich eher auf eine jahrzehntelange, schwere Krise – leider.

Spengler prognostiziert, ja fordert im Untergang des Abendlandes die Herrschaft neuer Caesaren, der Diktatoren auf Zeit. Diese Hoffnung ist in Rom und in der ersten Hälfte des 20. Jahrhunderts fatal gescheitert. Wer könnte uns jetzt noch demokratisch retten?

Diktatur, Caesarismus und Kaiserreich sind für Spengler untrennbar verbunden. Und in Rom ist der Caesarismus ja nicht gerade gescheitert. Er etablierte sich vielmehr nach den verschiedensten kurzlebigen Versuchen der Konstruktion autoritärer Herrschaft durch die Gracchen, Marius, Sulla, Pompeius und Caesar dauerhaft seit der Machtergreifung des Augustus. Letzter errichtete dann eine neue Regierungsform, welche im Westen 500 Jahre, im Osten 1.500 Jahre Bestand haben sollte. Keine schlechte Erfolgsbilanz, wie ich finde.

Heute ist es kaum eine Generation her, dass die letzten autoritären Regime in Europa verdrängt wurden. Ich denke dabei nicht nur an den Ostblock, sondern auch an Griechenland oder Spanien. Die Forderung nach dem „starken Mann“, der uns aus der Krise führt, bleibt trotzdem aktueller denn je. Einer Umfrage der Le Monde Diplomatique zufolge erklärten sich 2013 32,3 Prozent der Deutschen, 38,2 der Italiener, 41,8 der Engländer, 43,2 der Franzosen, 56,6 der Ungarn, 60,8 der Polen und 62,4 der Portugiesen mit der Aussage einverstanden: „Was mein Land am meisten braucht, ist ein starker Mann an der Spitze, der sich weder um das Parlament noch um die Wahlen schert”. Wer will also heute überhaupt noch „demokratisch” gerettet werden? Die Demokratie – oder das, was wir heute unter ihr verstehen, und dem ein Athener des 5. Jahrhunderts v. Chr. nur mit Kopfschütteln begegnet wäre – ist weitgehend gescheitert. Sie lässt das Abendland von Tag zu Tag tiefer in die Krise sinken.

Blaue Narzisse​.de: Prof. Engels, ist unsere moderne Demokratie einfach nur ein historisches Missverständnis im Vergleich zur Antike?

David Engels: Nun, im Gegensatz zu dem, was heute überall verbreitet wird, lassen sich Ideale und Staatsformen nicht einfach per Dekret exportieren. Alles hängt auch von der dazugehörigen Mentalität ab. Von daher ist es ohnehin fast unmöglich, einen Begriff wie „Demokratie” in Antike und Abendland zu vergleichen. Insgesamt allerdings lässt sich beobachten, dass unsere Demokratie eine starke Tendenz aufweist, das klassische athenische, schon im 4. Jahrhundert v. Chr. gescheiterte Prinzip regelmäßiger Volksabstimmungen wie auch einer maximalen Einbindung jeden Bürgers in die Staatsverwaltung hinter sich zu lassen. Stattdessen werden vielmehr immer zahlreichere Kontroll– und Mittlerinstanzen zwischengeschaltet.

Das mochte bei außenpolitischer Flaute und wirtschaftlichem Wachstum, wie in der zweiten Hälfte des 20. Jahrhunderts, noch weitgehend folgenlos bleiben, offenbart sich aber heute angesichts der zahlreichen Krisen als fatale Schwäche. Denn die tatsächliche Macht muss sich angesichts der entstehenden Lähmung der Entscheidungsfindung notwendigerweise in andere Bereiche verlagern, um die Gesellschaft handlungsfähig zu halten.

Sie machen auch den Mangel an Ungleichheit und Autoritäten für den Untergang verantwortlich. Wie lässt sich eine Wiedergeburt dieser Werte mit einer demokratischen Gesellschaft verbinden?

Alles hängt davon ab, wie wir „Demokratie” definieren. Heute versucht die Gleichmacherei der „political correctness” jede gesellschaftliche Ausnahme in schon fast pathologischem, vorauseilendem Gehorsam zur gleichberechtigten Regel neben die mehrheitliche Norm zu stellen. Daher wird auch der Volkswille, wenn er sich denn einmal äußert und mit der herrschenden Ideologie nicht vereinbar ist, umgedeutet, korrigiert, zensiert oder glatt ignoriert. Gleichzeitig befindet sich die tatsächliche politische Macht in demokratisch unzugänglichen Zirkel einiger mächtiger Wirtschaftsmanager, Druckgruppen und internationaler Institutionen, welche von der Machtlosigkeit der Demokratie profitieren und das System daher um jeden Preis konservieren wollen. Betrachtet man diese Gegenwart, dann dürfte es tatsächlich schwer werden, eine solche Staatsform mit der Wiedergeburt traditioneller Werte zu verbinden.

Wenn wir uns aber daran erinnern, dass Demokratie im ursprünglichen Sinne einfach nur eine Staatsform bezeichnet, in der der Volkswille in jedem Augenblick so ungeteilt und ungefiltert wie möglich in politisches Handeln umgesetzt wird, sehe ich keinerlei Unvereinbarkeit. Denn die Zahl jener, die sich zu den historischen Werten unserer abendländischen Kultur bekennen bzw. in ungebrochener Kontinuität mit ihnen leben, macht ja immer noch die Mehrzahl der Bevölkerung aus. Unter diesem Blickwinkel wäre also die Rückkehr zu einer wahrhaft demokratischen Gesellschaft in Europa sogar untrennbar verbunden mit einer vergrößerten Loyalität und Solidarität unserer historischen Identität gegenüber. Und eine solche Kombination war ja gerade das ideologische Aushängeschild der „res publica restituta”, der „wiederhergestellten Republik” des Augustus.

Sie schreiben, ähnlich wie Spengler, Optimismus sei Feigheit. Bleiben uns jetzt nur der Untergang und der resignierte Rückzug ins Private?

Was als „Optimismus” und „Pessimismus” gilt, hängt weitgehend von unserer eigenen Perspektive auf die Geschichte ab. Ich gestehe, dass ich als überzeugter Abendländer wie auch als Historiker das Heraufkommen einer geschichtsverbundeneren Regierungsform und Weltanschauung mit einer gewissen Sympathie begrüße. Als Historiker ist man ja in irgendeiner Weise, offen oder verdeckt, immer Traditionalist.

Eine augusteische Wende für die EU würde aber, trotz aller republikanischen Ummantelung und Popularität der neuen Regierung, doch wesentlich nur die in den letzten Jahrzehnten vollzogene Vereinfachung und Konzentration von Macht in den Händen einiger Weniger definitiv verankern. Der Rückzug ins Private hat sich schon seit nunmehr zwei Generationen weit verbreitet, wie fast mathematisch an der Wahlbeteiligung überall in Europa abzulesen ist. Daran ändert auch die Aufsicht einer plebiszitär akklamierten obersten Instanz nichts. Diese Tatsache kann ich nur bedauern, ohne allerdings die geringste Hoffnung zu haben, dass dieser Prozess umkehrbar wäre.

Auch haben wir ja gar nicht die Wahl, denn ein Rückfall Europas in die Nationalstaaterei 28 kleiner Länder ist keine sinnvolle Alternative. Gegen machtpolitische Giganten wie die USA oder China hätte Europa nicht die geringsten Chancen, auch Deutschland mit seiner schwindenden Bevölkerung und seiner wirtschaftlichen Abhängigkeit von seinen Nachbarn stellt hier keine Ausnahme dar. Wir würden nur Brüssel gegen Washington oder Peking eintauschen, während sich gleichzeitig unsere Nationalstaaten gegenseitig zerfleischen, obwohl sie alle unter denselben Problemen leiden. Die imperiale Lösung ist deshalb vielleicht sogar das geringere Übel für den Kontinent. Das klingt möglicherweise hart. Aber wir sollten uns früh mit diesen Aussichten vertraut machen. Umso eher können wir unsere Zukunft so gut wie möglich gestalten.

Prof. Engels, vielen Dank für das Gespräch!

Anm. der Red: Die französische Originalausgabe (Le Déclin. La crise de l’Union européenne et la chute de la République romaine. Analogies historiques, Paris 2013) erschien dieses Jahr in einer vom Autor erstellten, wesentlich erweiterten deutschen Fassung im Berliner Europaverlag unter dem Titel Auf dem Weg ins Imperium. Die Krise der Europäischen Union und der Untergang der Römischen Republik. Historische Parallelen. Hier gibt es mehr Informationen dazu. Und hier geht es zum ersten Teil des Interviews.

jeudi, 12 juin 2014

Qu’est-ce que l’Imperium ?

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Qu’est-ce que l’Imperium?

par Charles Mallet

Ex: http://lheurasie.hautetfort.com

 
Cela fait déjà quelques années que les milieux nationalistes et eurasiens, notamment au sein de la « Nouvelle Droite », se réapproprient la notion d’imperium comme moyen de la restauration/fondation et de la pérennité de l’Europe-Nation ou Europe-Puissance. Cette notion est souvent confondue avec celle d’ « Empire », pour la simple et bonne raison qu’elle en est étymologiquement la racine. Cependant, il conviendrait de clarifier ce qu’est l’imperium, afin d’en appréhender toutes les potentialités, qui dépassent la simple perspective d’un « empire » au sens commun du terme (c’est-à-dire au sens d’une structure politique supranationale).
 
Origine
 
La notion d’imperium prend corps dans l’Antiquité romaine, plus précisément à l’époque républicaine (schématiquement comprise entre 509 et 31 av. J.-C.). Etymologiquement, il vient d’« ordonner », « préparer pour ». Il s’agit d’un pouvoir souverain délégué aux consuls, préteurs et à certains gouverneurs de province, par les dieux dont la volonté était censée se manifester au travers du peuple dans le vote des assemblées (élisant les magistrats). L’imperium est donc un pouvoir souverain (c’est-à-dire ne reconnaissant pas de supérieur temporel) d’ordonner et de juger, symbolisé par les faisceaux (haches entourées de verges portées par les licteurs).
 
Le titulaire d’un imperium pouvait être désigné sous le terme d’imperator (chef militaire victorieux –souvent consul-, ayant droit à ce titre à un triomphe à Rome). Sous la République, l’imperium était néanmoins un pouvoir limité dans le temps et dans l’espace. De plus, il subissait la concurrence d’autres pouvoirs comme la puissance tribunicienne (tribunitia potestas rendant sacrosainte la personne des tribuns chargés de représenter et de défendre la Plèbe de Rome). Les guerres civiles de la fin de la République (de 88 à 31 av. J.-C.), voyant différents imperatores se disputer l’exclusivité de l’imperium (Marius, Sylla, César, Pompée, Octave-Auguste, Antoine)débouchent finalement sur l’avènement de l’Etat Impérial (à partir du règne d’Auguste de 27 av. J.-C. à 14 de notre ère) dans lequel tous les pouvoirs sont accolés à un imperium permanent entre les mains d’un seul homme : le césar auguste imperator. Imperator devient un surnom, un nom puis un prénom des empereurs, uniques détenteurs de l’imperium.
 
A ce stade, un certain nombre d’erreurs ne doivent plus être commises : L’imperium n’est pas l’ « Empire ». Si « Imperium » a bien donné « Empire », les romains n’ont pas eu de mots pour décrire précisément le système impérial en tant que système de gouvernement en soi, ou comme territoire. Rome et son Empire sont restés malgré la fin du système républicain la Res Publica. L’imperium est donc un type de pouvoir, et non un système politique ou un territoire, du moins à l’origine. De même, « imperator » ne désigne la fonction d’empereur que tardivement, l’imperator étant avant tout un chef de guerre victorieux.
 
L’empire romain : un imperium euro-méditerranéen permanent
 
imp1.jpgA ce titre, ce concept est à l’image de la culture politique et de la pratique du pouvoir des Empereurs Romains : souple, pragmatique, concrète. Il en va de même de la nature du pouvoir impérial, difficile à appréhender et à définir, puisque construit par empirisme (sa nature monarchique n’est cependant pas contestable). En plus de quatre siècles, le pouvoir impérial a su s’adapter aux situations les plus périlleuses (telle la « crise » du IIIe siècle). Rien de commun en effet entre le principat augustéen, système dans lequel l’empereur est le princeps, le prince, primus inter pares, c’est-à-dire premier entre ses pairs de l’aristocratie sénatoriale ; la tétrarchie de Dioclétien (284-305), partage du pouvoir entre quatre empereurs hiérarchisés et l’empire chrétien de Constantin (306-337), dans lesquels l’empereur est le dominus, le maître.

Le système impérial s’accompagne d’une idéologie confortant la souveraineté suprême de l’Empereur. L’empereur est sacrosaint (il a accaparé la puissance tribunitienne). Il doit assurer la paix (la fameuse pax romana inaugurée par Auguste), assurer le retour à l’âge d’or, il bénéficie de la protection des dieux (ou de Dieu, dont il est le comes, le comte –ou compagnon- sur terre, à partir de Constantin) et d’un charisme divin (c’est là tout le sens du titre d’Augustus). Il doit posséder les vertus de justice, de clémence, de piété, de dévouement à l’Etat. Au-delà de cela, il doit corréler respect des traditions et nécessité de fédérer un empire constitué d’une myriade de cités au passé prestigieux et attachées à leur indépendance. En cela, les empereurs romains n’ont point failli, comme le souligne Lucien Jerphagnon dans sa biographie d’Augustin : « Sur 3 300 000 km2 autour de la Méditerranée […] soixante à soixante-dix millions de gens s’affairent ou se laissent vivre, tous différents, avec leurs langues régionales, leurs dieux bien à eux. S’ils avaient plus ou moins renâclé à passer sous domination romaine, ils se trouvaient dans l’ensemble plutôt bien de la Pax Romana. Bref s’était instauré un universalisme qui n’effaçait rien des identités locales. Depuis Caracalla (212), […] on était citoyen romain tout en restant Africain, Syrien… ».
 
Si la nature de la fonction impériale a évoluée, son fondement est resté inchangé : un pouvoir souverain, transcendant, à la fois civil, militaire et religieux, soutenu par un charisme divin, un pouvoir surhumain, nivelant par le haut, ayant pour horizon la pax aeterna, écartant les prétentions des forces centrifuges, donnant une orientation commune à toutes les composantes d’une même koiné (communauté culturelle et politique), tout en préservant leurs identités profondes.
 
Pérennité du concept
 
La notion d’imperium recèle donc des potentialités multiples, et représente un projet valable pour la France et l’Europe que nous appelons de nos vœux. Elle n’est pas, contrairement à ce que l’on pourrait penser, un pur objet historique limité à l’histoire romaine, et dont le champ d’action concret s’arrêterait en 476 avec la chute de l’Empire d’Occident. En effet, la notion de souveraineté héritée de l’imperium a survécu en Europe sous une infinité de forme : Byzance, survivance de l’Empire d’Orient, de culture chrétienne orthodoxe et gréco-romaine, dont l’Empire russe s’est toujours vécu comme un héritier (« tsar » est un titre dérivé de celui de « césar ») ; Le Saint-Empire, chrétien catholique, germanique, issu de l’Empire Carolingien dont la vision était de faire renaître l’Empire Romain d’Occident, témoigne de la prégnance de l’idée d’Empire, y compris chez les barbares installés sur son territoire dans les dernières années de l’empire d’Occident. Charlemagne (Carolus Magnus) ne s’était-il pas fait couronné par le pape dans la ville même de Rome selon le rituel d’intronisation des empereurs (ou du souvenir qu’il en restait), n’a-t-il pas repris la symbolique impériale, en sommeil depuis la chute de l’Empire (orbe impériale, sceptre, couronne –issu du diadème impérial des empereurs tardifs, lui-même repris des rois helléniques-) ? Enfin, les royaumes « barbares », en premier lieu le royaume franc, ont eux aussi recueilli l’héritage de l’imperium romain et de la culture classique à travers l’Eglise. Les mérovingiens (ainsi que les ostrogoths, les wisigoths ou les burgondes), fascinés par le prestige impérial, ont tenté d’imiter le faste des empereurs (imitatio imperii). C’est cependant la monarchie française issue de l’éclatement de l’empire carolingien (Capétiens, Valois, Bourbons) qui sera –à notre sens- parmi les nations européennes la plus belle héritière de la tradition politique romaine. Les rois de France, notamment à partir des derniers capétiens (deuxième moitié du XIIIe siècle), nourris de la redécouverte du droit romain, vont affirmer le principe de souveraineté contre les puissances cherchant à la subjuguer ou à la faire éclater. Le pouvoir royal français comprend de nombreuses similitudes et d’emprunts à l’imperium romain : son côté surnaturel, total –ou plutôt absolu-, divin, la coexistence d’aspects civils, militaires, et religieux, certaines des regalia (l’orbe, la couronne…).
 
imp2.jpgAinsi, à l’éclatement politique de l’Europe au Moyen Âge et à l’époque Moderne a correspondu un éclatement du pouvoir souverain, de l’imperium. L’idée d’un pouvoir souverain fédérateur n’en n’a pas pour autant été altérée. Il en va de même de l’idée d’une Europe unie, portée par l’Eglise, porteuse première de l’héritage romain. Le regain d’intérêt que connait la notion d’imperium n’est donc pas le fruit d’une passion romantique pour l’antiquité européenne, mais la preuve qu’en rupture avec la conception moderne positiviste de l’histoire, nous regardons les formes d’organisations politiques passées comme autant d’héritages vivants et qu’il nous appartient de nous les réapproprier (les derniers empires héritiers indirects de la vision impériale issue de Rome ont respectivement disparu en 1917 –Empire Russe- et 1918 –Empire Austro-Hongrois et Empire Allemand-). Si ce court panorama historique ne peut prétendre rendre compte de la complexité du phénomène, de sa profondeur, et des nuances nombreuses que comporte l’histoire de l’idée d’imperium ou même de l’idée d’Empire, nous espérons avant tout avoir pu clarifier son origine et son sens afin d’en tirer pour la réflexion le meilleur usage possible. L’imperium est une forme du pouvoir politique souple et forte à la fois, capable de redonner du sens à l’idée de souveraineté, et d’articuler autorité politique continentale et impériale de l’Eurasisme avec les aspirations à la conservation des autonomies et des identités nationales portées par le Nationalisme ou même le Monarchisme. A l’heure où le démocratisme, les droits de l’homme, et le libéralisme entrent dans leur phase de déclin, il nous revient d’opposer une alternative cohérente et fédératrice et à opposer l’imperium au mondialisme.
 
Charles Mallet 

mardi, 02 juillet 2013

Rome, ville éternelle...

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Rome, ville éternelle...

La Nouvelle Revue d'Histoire est en kiosque (n° 67, juillet - août 2013). Avec la mort de Dominique Venner, c'est Philippe Conrad qui reprend le flambeau et assure la direction de la revue.

Le numéro s'ouvre, bien évidemment, par l'hommage que rendent à Dominique Venner de nombreux écrivains, historiens et journalistes.

Le dossier central est consacré à Rome. On peut y lire, notamment,  des articles de Philippe Conrad ("Aux origines de l'Urbs, de la légende à l'histoire"), de Jean-Louis Voisin ("L'héritage de Rome"), de Dominique Venner ("Comment l'Empire est devenu chrétien"), de Bernard Fontaine ("La papauté romaine au Moyen Âge"), de Jean-Joël Brégeon ("La Rome de la Renaissance", "1527 : le sac de Rome"), de Martin Benoist ("La papauté face au défi de l'unité italienne"), de Michel Ostenc ("La Rome de Mussolini") et de Philippe d'Hugues ("De Rome à Cinecitta") ainsi que des entretiens avec Yann Le Bohec ("Le miracle romain") et Jean Delumeau ("La seconde gloire de Rome").

Hors dossier, on pourra lire, en particulier, un entretien avec la sinologue Anne Cheng ("La Chine d'hier et d'aujourd'hui") ainsi que des articles de Dominique Venner ("De la gauche au capitalisme absolu"), de Jean-Jacques Langendorf ("Jomini l'incompris") ou de Francis Bergeron ("Henri Béraud, l'épuré qui n'avait pas collaboré ") et la chronique de Péroncel-Hugoz.

 

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vendredi, 12 avril 2013

Missione imperiale di Roma

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samedi, 23 mars 2013

Les anciens Romains connaissaient l’Amérique

Les anciens Romains connaissaient l’Amérique: de nouvelles preuves mises à jour

 

Un examen d’ADN démontre qu’il y avait des semences de tournesol dans les vestiges retrouvés dans l’épave d’un bateau coulé dans le Mer Tyrrhénéenne au II° siècle avant Jésus-Christ. Pourtant on croyait que cette fleur, vénérée par les Incas, avait été importée en Europe par les conquistadores...

 

copertina_romani_II.jpgEn somme, on peut croire désormais que bien avant les Vikings, les Romains fréquentaient le continent américain. De nouveaux indices archéologiques convaincants semblent confirmer désormais que les navires romains entretenaient des relations commerciales avec l’Amérique. Elio Cadelo, vulgarisateur scientifique, l’a annoncé lors d’une conférence tenue en marge d’une conférence de presse à Bologne portant sur la série cinématographique archéologique “Storie del Passato”. Le documentaire “Quand les Romains allaient en Amérique” dévoile des choses surprenantes sur les anciennes routes de navigation.

 

Un indice fort probant nous est fourni par une analyse ADN de résidus d’origine végétale (appartenant à une pharmacie du bord) retrouvés dans les restes d’une épave romaine, récupérés le long de la côte toscane. Le naufrage du navire a dû avoir lieu entre 140 et 120 avant JC quand Rome, après avoir détruit Carthage, était devenue la seule superpuissance de la Méditerranée. Sur ce malheureux bateau devait se trouver un médecin, dont le matériel professionnel a pu être retrouvé quasi intact dans l’épave: il y avait là des fioles, des bendelettes, des outils chirurgicaux et des petites boîtes, encore fermées, qui contenaient des pastilles magnifiquement bien conservées et qui constituent aujourd’hui des éléments très précieux pour connaître la pharmacopée de l’antiquité classique.

 

Les nouvelles analyses des fragments d’ADN provenant des végétaux contenus dans les pastilles “ont confirmé l’utilisation, déjà observée, de plusieurs plantes pharmaceutiques, mais deux d’entre elles ont plongé les archéologues dans la perplexité”, a expliqué Cadelo lors de sa communication de Bologne, organisée par “Ancient World Society”. En effet, “on y trouvait de l’ibiscus, qui ne pouvait provenir que de l’Inde ou de l’Ethiopie, et, surtout, des graines de tournesol”.

 

D’après les connaissances communément admises jusqu’ici, le tournesol n’est arrivé en Europe qu’après la conquête espagnole des Amériques. Le premier à avoir décrit la fleur de tournesol fut le conquistador du Pérou, Francisco Pizzaro, qui racontait aussi que les Incas la vénéraient comme l’image de leur divinité solaire. On sait aussi que cette fleur, de dimensions imposantes et fascinante, était cultivée dans les Amériques depuis le début du premier millénaire avant notre ère. Mais on n’en avait trouvé aucune trace dans le Vieux Monde, avant son introduction par les marchands qui furent les premiers à fréquenter les “terres à peine violées” par les conquistadores ibériques.

 

Une autre curiosité s’ajoute à de nombreuses autres, que nous explique le livre de Cadelo qui dresse l’inventaire des trafics commerciaux antiques, inconnus jusqu’ici. Ainsi, cette surprenante découverte d’un bijou raffiné en verre recouvert de feuilles d’or provenant d’ateliers romains de l’ère impériale que l’on a retrouvé dans une tombe princière japonaise, non loin de Kyoto. Il s’agit d’une pièce de verroterie rehaussée d’or que des marchands marins romains emportaient avec eux pour en faire des objets d’échange. Mais on ne doit pas nécessairement penser que ce furent des marchands romains qui l’apportèrent au Japon; ce bijou a très bien pu être échangé en d’autres lieux avant d’arriver en Extrême-Orient. Par ailleurs, on a retrouvé des monnaies romaines lors de fouilles en Corée et même en Nouvelle Zélande. D’autres preuves de la présence en Amérique de navires phéniciens ou romains avaient été décrites dans la première édition du livre de Cadelo, où, entre autres choses, l’auteur dénonce notre ignorance absolue des connaissances astronomiques de nos ancêtres: par exemple, il y a, dans la “Naturalis Historia” de Pline l’Ancien une page peu lue où le naturaliste antique explique que le mouvement de rotation de la Terre autour de son propre axe peut se démontrer par le lever et le coucher du soleil toutes les vingt-quatre heures (près d’un millénaire et demi avant Copernic...). Et Aristote disait être certain que l’on pouvait atteindre l’Inde en naviguant vers l’Ouest: si Christophe Colomb avait pu monter cette page d’Aristote aux Rois catholiques d’Espagne, il se serait épargné bien du mal à les convaincre de lui confier trois caravelles.

 

(article trouvé sur le site du quotidien italien “Il Giornale”; http://www.ilgiornale.it/ ).

jeudi, 14 mars 2013

Gli antichi Romani conoscevano l'America

Gli antichi Romani conoscevano l'America, arrivano nuove prove

L'esame del Dna dimostra che ci sono anche semi di girasole nelle pastiglie ritrovate nel relitto di una nave affondata nel Tirreno nel II secolo avanti Cristo. Ma il fiore venerato dagli inca non era stato portato in Europa dai Conquistadores?

Ex: http://www.ilgiornale.it/ 

Insomma, molto prima dei vichinghi, i romani frequentarono l'America. Emergono nuovi, convincenti indizi archeologici sulle antiche frequentazioni commerciali delle Americhe da parte di navi romane: li ha illustrati, in una conferenza a margine della rassegna bolognese di cinema archeologico «Storie dal Passato», il divulgatore scientifico Elio Cadelo, con un'ampia anteprima della nuova edizione del suo libro «Quando i Romani andavano in America», ricco di sorprendenti rivelazioni sulle antiche rotte di navigazione.
Un indizio dalla robusta forza probatoria si deve alle nuove analisi del Dna dei farmaci fitoterapici rinvenuti in un relitto romano recuperato alle coste toscane: il naufragio avvenne a causa di una tempesta fra il 140 e il 120 avanti Cristo, quando Roma, distrutta Cartagine, era ormai la sola superpotenza del Mediterraneo. Su quella sfortunata nave viaggiava anche un medico, il cui corredo professionale ci è stato restituito dal relitto: fiale, bende, ferri chirurgici e scatolette che, ancora chiuse, contenevano pastiglie molto ben conservate, preziosissime per la conoscenza della farmacopea nell'antichità classica.


Le nuove analisi dei frammenti di Dna dei vegetali contenuti in quelle pastiglie «hanno confermato l'uso, già noto, di molte piante officinali, tranne due che - ha spiegato Cadelo nella sua relazione alla Rassegna, organizzata da Ancient World Society - hanno destato forte perplessità fra gli studiosi: l'ibisco, che poteva solo provenire da India o Etiopia, e, soprattutto, i semi di girasole».


Ma il girasole, secondo le cognizioni fino a ora accettate, arrivò in Europa solo dopo la conquista spagnola delle Americhe: il primo a descriverlo fu il conquistador del Perù Francisco Pizarro, raccontando che gli Inca lo veneravano come l'immagine della loro divinità solare. Di quel fiore imponente e affascinante, poi, si seppe che era coltivato nelle Americhe fin dall'inizio del primo millennio avanti Cristo. Ma ancora non se n'era trovata alcuna traccia nel Vecchio Mondo, prima della sua introduzione a opera dei mercanti per primi frequentarono le terre appena «violate» dai conquistadores iberici.


È questo un altro tassello che si aggiunge ai moltissimi altri, spiegati nel libro di Cadelo, che documentano traffici commerciali insospettati: come il sorprendente rinvenimento - altra novità - di raffinati gioielli in vetro con foglie d'oro, provenienti da botteghe romane di età imperiale: erano in una tomba principesca giapponese, non lontano da Kyoto. Si tratta di perline che i mercanti navali romani portavano spesso con sé, come oggetto di scambio. Ma non è necessario pensare che fossero proprio romani, i mercanti che le portarono fino in Giappone: quei gioielli potrebbero essere stati scambiati anche su altri approdi, prima di arrivare in Estremo Oriente. Peraltro, monete romane sono state restituite da scavi effettuati anche in Corea e perfino in Nuova Zelanda. Altre prove delle antiche frequentazioni navali americane di Fenici e Romani sono già descritte nella prima edizione del libro di Cadelo, dove - fra l'altro - si sfatano alcune sconcertanti nostre ignoranze sulle cognizioni astronomiche dei nostri antenati: per esempio, c'è una poco frequentata pagina della «Naturalis Historia» di Plinio il Vecchio dove si spiega che il moto di rotazione della Terra attorno al proprio asse è dimostrato dal sorgere e tramontare del Sole ogni 24 ore (un millennio e mezzo prima di Copernico). E Aristotele si diceva certo che fosse possibile raggiungere l'India navigando verso ovest: se Cristoforo Colombo avesse potuto esibire quella pagina aristotelica, si sarebbe risparmiato tanta fatica durata a convincere i regnanti di Spagna a concedergli le tre caravelle.

jeudi, 18 octobre 2012

Le lieu de l'assassinat de Jules César localisé

Le lieu de l'assassinat de Jules César localisé

par Marc Mennessier (Le Figaro)

INFOGRAPHIE - Des chercheurs ont découvert la dalle érigée sur la scène du crime par l'empereur Octave Auguste.

«Tu quoque mi fili!» («Toi aussi, mon fils!»)Tels furent les derniers mots prononcés par Jules César le 15 mars de l'an 44 avant Jésus-Christ, en découvrant que son fils, Marcus Brutus, faisait partie du groupe d'assassins qui le poignardèrent à 23 reprises.
La scène, décrite un siècle plus tard par Suétone (v. 69-v. 126) dans son célèbre ouvrage Vies des douze Césars, s'est déroulée à Rome, dans la Curie de Pompée, alors que le célèbre général romain présidait une séance du Sénat.
Mercredi soir, des chercheurs du Centre supérieur de recherche scientifique espagnol (CSIC) ont apporté des précisions inédites sur cet événement, tant de fois représenté par la peinture historique, la littérature ou le cinéma, et qui se solda par la chute de la République romaine et l'avènement de l'Empire.


L'équipe dirigée par Antonio Monterroso annonce avoir découvert une structure de ciment d'environ trois mètres de large sur deux mètres de haut, qui aurait été mise en place sur le lieu exact du crime sur ordre d'Octave Auguste, fils adoptif de César à qui il succédera en devenant le premier empereur romain.

«Nous avons toujours su que Jules César a été assassiné dans la Curie de Pompée parce que c'est ce que nous transmettent les textes classiques, mais jusqu'à présent nous n'avions récupéré aucun témoignage matériel», explique Antonio Monterroso.
Selon le centre de recherche espagnol, Auguste aurait érigé cette construction monumentale, «une structure rectangulaire formée de quatre murs qui délimitent une dalle de ciment», afin de condamner l'emplacement précis où son grand-oncle et père adoptif fut victime de la conspiration de ses ennemis. À savoir, «juste au centre du fond de la Curie de Pompée, alors que Jules César présidait, assis sur une chaise, la réunion du Sénat».
Selon le Pr Jean-Michel David, historien à l'université Paris-I-Sorbonne et spécialiste de cette période, le conquérant de la Gaule se trouvait non loin de la célèbre statue de Pompée, représenté nu en vainqueur du monde, mais les travaux de ses collègues espagnols, s'ils sont confirmés, permettent de localiser la scène du crime «au mètre près». «Il convient maintenant d'expertiser le ciment de la dalle afin de s'assurer que ce matériau est bien contemporain d'Auguste», précise-t-il au Figaro.

Cette découverte s'inscrit dans le ­cadre des travaux menés par le CSIC dans la zone archéologique de Torre Argentina, dans le centre historique de Rome, où se trouve la Curie de Pompée. Avec le portique aux Cent Colonnes (Hécatostylon), ce monument fait partie de l'immense complexe (d'environ 54.000 mètres carrés) construit par Pompée en 55 avant Jésus-Christ pour commémorer ses nombreuses victoires militaires. Chaque jour, des milliers de Romains et de touristes prennent le bus ou le tram en passant, souvent sans le savoir, tout près de l'endroit où César fut assassiné, il y a très exactement 2056 ans…
 

lundi, 09 avril 2012

Ce que nous devons à la Rome antique

Lucien Jerphagnon, l'historien espiègle d'une profondeur à la portée de tous.

Ce que nous devons à la Rome antique

 
L'Empereur Julien

Que devons-nous à Rome et à la Grèce antique ? « Tout, bien sûr. Enfin presque… » Telle fut la réponse de Lucien Jerphagnon à la question que je lui avais posée dans le premier numéro de La Nouvelle Revue d’Histoire en 2002. Cette réponse fut suivie de beaucoup d’autres jusqu’à la disparition de ce grand historien, helléniste et latiniste, l’an passé.

Les autres savants qui nous ont livré leurs connaissances sur Rome l’ont toujours fait en séparant hermétiquement l’histoire (les hommes, les hauts faits, les batailles) et la philosophie (les chemins de la pensée). L’un des apports rares de Lucien Jerphagnon est d’entrelacer ces deux domaines arbitrairement séparés. D’où le regard total qu’il délivre sur l’histoire romaine. Il montre l’évolution des représentations d’une époque à une autre. Car tout changeait constamment dans ce vaste univers comme dans le nôtre.

De Romulus, fondateur mythique de la Ville en 753 avant notre ère, jusqu’à la déposition en 476 du dernier empereur d’Occident, l’évanescent Romulus Augustule, s’écoulent plus de mille deux cents ans. Plus d’un millénaire d’une histoire sans équivalent au monde, pas même en Egypte ancienne, ni en Perse, en Inde ou en Chine. C’est à la découverte de ce continent historique sans égal que nous convie avec un entrain irrésistible Lucien Jerphagnon.

Avant sa disparition (16 septembre 2011), il avait prévu de léguer à la postérité le gros et passionnant volume de la collection « Bouquins », qui vient de paraître et que l’on ne se lassera pas de relire. Sous le titre Les armes et les mots, ce volume réunit trois ouvrages en un : Histoire de la Rome antique ; Les Divins Césars : Idéologie et pouvoir dans la Rome impériale ; enfin, Histoire de la pensée : D’Homère à Jeanne d’Arc (autrement dit, de la Grèce antique au Moyen Age).

Dans une préface à ce volume, Jean d’Ormesson, ami de longue date de Lucien Jerphagnon, estime que s’il devait définir celui-ci en deux mots, il dirait « qu’il était amusant et profond ». C’est en effet bien résumer ce que fut Lucien Jerphagnon, universitaire à l’immense savoir, « toujours prêt à s’amuser et à amuser les autres ». Il apportait une rigueur extrême à ses travaux savants et à l’écriture de ses livres de haute vulgarisation, sans jamais se prendre au sérieux. Jerphagnon pensait que l’on écrit pour être compris et pas seulement des érudits. Sur les sujets les plus graves ou complexes, ses livres continuent de poser un regard qui n’était dupe de rien ni de personne. Une seule fois peut-être, l’émotion admirative l’emporte sur l’ironie souriante, quand il conclut les pages très denses qu’il consacre au jeune empereur Julien (360-363) auquel il refuse l’attribut d’ « apostat » (Le prince qui s’était trompé d’époque).

Qui furent vraiment les hommes rudes et entreprenants, fondateurs de Rome, puis contemporains des Scipion, d’Octave Auguste, Tibère, Trajan, Marc Aurèle ou plus tard Constantin et Julien ? Et que pensait-on à leur époque de ces grands personnages divinisés par nécessité politique ? Et que pensaient-ils eux-mêmes de Rome, de leur pouvoir et du monde dans lequel ils vivaient ? Dans les réponses à ces questions traitées comme par un contemporain lucide écrivant pour ses amis, et non un universitaire d’aujourd’hui, on discerne ce qu’il y a d’unique chez Lucien Jerphagnon, à la fois véritable historien, informé de tout, mais également connaisseur inégalé de la philosophie antique, puis de la curieuse religion instaurée non sans mal ni conflits cruels par les disciples et successeurs du divin Christos.

Simultanément, paraît aux éditions Albin Michel un ouvrage posthume de Lucien Jerphagnon, Connais-toi toi-même… et fais ce que tu aimes, ce qui a une autre allure et un autre sens que « fais ce qui te plais ». Il s’agit d’un florilège sur l’Antiquité grecque et romaine, « pour adoucir le cours du temps et réjouir ses amis ». On y retrouve les chroniques que le « vieux Jerph » avait données à La NRH, parmi un grand nombre d’autres textes et d’inédits, sources de connaissances et de réflexions inépuisables.

 

Dominique Venner

Notes

  1. Lucien Jerphagnon, Les armes et les mots, Robert Laffont, Bouquins, 1216 p., 32 €. Du même auteur, Connais-toi toi-même… et fais ce que tu aimes, Editions Albin Michel, 380 p., 20 €.
  2. En illustration, une effigie du jeune empereur Julien qui régna de 360 à 363. Une figure pathétique superbement restituée par Lucien Jerphagnon dans le volume de la collection Bouquins (p. 632-653).

samedi, 03 mars 2012

Y a-t-il eu une pensée navale romaine ?

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Y a-t-il eu une pensée navale romaine ?

par Jean Pagès


On ne possède pas de textes d’historiens ou de penseurs de l’Antiquité latine ou grecque qui auraient traité de cette question telle qu’on l’énonce, peut-être avec trop de facilité, de nos jours ; en Grèce, la marine avait toujours tenu une grande part dans les préoccupations des politiques, surtout après Salamine, mais n’avait donné lieu qu’à des déclarations de politique navale, sans qu’il soit fait référence à une pensée stratégique plus affinée qui restait sous-jacente. Il en allait autrement à Rome : pour le citoyen moyen, la marine jouait un rôle secondaire et était méprisée par comparaison aux services glorieux des légions. En revanche, ceux qui eurent la charge de la destinée de Rome, tant durant la période républicaine que sous l’Empire, avaient compris l’importance de la marine et Auguste le premier eut l’intuition d’une stratégie navale à l’échelle de l’empire.

Le chapitre de l’histoire de Rome concernant la marine, tant républicaine qu’impériale, a été négligé par les historiens de l’Antiquité, qui ne nous ont donné que des renseignements imparfaits. Le seul auteur qui aurait pu nous éclairer sur la pensée navale romaine de la période républicaine est Polybe (200-125 avant J.-C.) ; malheureusement la partie de son œuvre qui aurait pu nous apprendre comment, en si peu de temps, les Romains ont atteint une telle supériorité sur mer est perdue. Quant à Tite Live (64 avant à 17 après J.-C.), son Histoire n’apporte que peu de renseignements. De même les auteurs de l’époque impériale ne se sont guère intéressés à la création des flottes de Misène et de Ravenne et curieusement Auguste lui-même, qui en était le père, n’en dit rien dans l’inscription d’Ancyre considérée pourtant comme son testament. Dion Cassius (IIe/IIIe siècle après J.-C.) n’en dit pas plus. Strabon (63 avant/19 après J.-C.) a bien forgé le concept de thalassocratie (thalassokratia. géographie, 48), qui connaîtra plus tard une grande vogue, mais la perte de ses écrits historiques empêche d’apprécier l’importance qu’il lui accordait. Quant à Suétone (69 à 122 après J.-C.), il rapporte que les Romains, dans leurs préjugés tenaces contre la marine, ont estimé que l’existence de ces flottes était pour eux un fait négligeable.
Cependant, certains chercheurs contemporains ont tenté d’étudier, non pas le problème de la pensée navale romaine, mais celui de la rencontre de Rome avec la mer et ses conséquences.

La marine romaine de la République 

Les historiens modernes sont partagés sur cette question et la plupart d’entre eux répondraient sans doute par la négative. Cependant, on peut estimer que si les Romains n’ont pas eu une pensée navale structurée et exprimée, du moins au commencement, ils ont, par la force des choses, été à même de saisir l’importance de la marine de guerre chez un peuple qui leur était géographiquement proche comme les Etrusques ou encore chez les Grecs de Syracuse : les premiers n’avaient-ils pas remporté une douteuse victoire sur les Phocéens au large de la Corse en 540/535 avant notre ère et les seconds la victoire d’Himère sur les Puniques en 480, l’année de Salamine ? Jacques Heurgon remarque qu’« on entrevoit en particulier que Rome, avant de se doter à Ostie d’un port qui lui fût propre, utilisa la flotte de Caeré aux fins de sa politique maritime naissante » (1). De même, les Romains n’étaient pas sans connaître l’activité des marines marchandes des cités grecques de Campanie et de Grande Grèce, Naples et Tarente, ainsi que les succès des escadres syracusaines contre les Puniques.
L’événement le plus ancien de l’histoire de la marine romaine remonte à 394, année au cours de laquelle un navire romain se rendant à Delphes avec une ambassade religieuse fut arraisonné et capturé par des navires des îles Lipari et emmené dans ces îles ; les gens de Lipari avaient pris ce navire pour un pirate étrusque. Après enquête, les Romains purent continuer leur voyage, escortés par des navires de guerre lipariens jusqu’à Delphes et revenir ensuite à Rome (Diodore, XIV, 93).
Il est attesté que dès le début du IVe siècle, à une date indéterminée, Rome a entrepris une colonisation outre-mer (2). Les textes laissent entendre que Rome « agissait en association avec Pyrgi, le port de Caeré ou mieux utilisait ses flottes ». Serait-ce cette expédition que, d’après Théophraste Rome fit « autrefois » en Corse avec 25 navires ? De son côté, Diodore (XV, 27, 24) parle de 500 colons envoyés par elle en Sardaigne en 377.
En 349, des pirates grecs s’attaquèrent à la côte du Latium. Rome, ne devant pas posséder de forces navales à cette époque, se contenta d’envoyer des troupes qui s’opposèrent avec succès au débarquement ; les Grecs, à court de vivres et surtout d’eau, abandonnèrent l’opération (Tite Live, VII, 25, 3-4 ; 26, 10-15).
Mais c’est l’exemple de la prise d’Antium (aujourd’hui Porto d’Anzio), au sud de Rome en 348, qui est le plus typique. Antium était un repaire de pirates étrusques que les Romains auraient dû réduire par une action navale ; ce furent des légionnaires qui s’emparèrent de la flotte d’Antium ; cette soi-disant victoire sur mer fut à l’origine de la colonne rostrale décorée d’éperons de navires ennemis pris par des soldats ! (Tite Live, VIII, 13 et 14)
Malgré cela, Rome apparaît comme une petite puissance maritime naissante à cette époque : le renouvellement de l’alliance carthaginoise en 348, l’enrôlement des pirates d’Anzio, la fondation d’une colonie à Ostie à l’embouchure du Tibre (ostium Tiberis) dont elle fera un port en 335, l’occupation militaire de l’île de Ponza au large des côtes de Campanie montrent que le destin de Rome allait se jouer désormais autant sur mer que sur terre (3).
A partir de 311, Rome nomme chaque année deux magistrats chargés de la marine (duoviri navales) qui seront chacun à la tête d’une petite escadre de dix navires de guerre pour lutter contre la piraterie en Tyrrhénienne. Ces deux escadres n’eurent pas grand succès : l’une d’elles tenta un débarquement contre Nuceria, près de Naples, qui échoua, la ville fut prise par des troupes de terre ; dans le conflit entre Rome et Tarente, une de ces deux escadres fut sévèrement malmenée par les forces navales adverses en 282 (4).
Les types de navires de guerre employés par les Romains, dans leurs escadres commandées par les duoviri navales, ne nous sont pas connus ; on peut supposer raisonnablement que ce devaient être des trières (à trois rangs de rames) et des pentécontères (à cinquante rameurs). Ainsi on sait qu’en 264, au début de la première guerre punique, Rome n’avait plus de marine et dut faire appel à ses socii navales, les cités de Grande Grèce et de Campanie  : Tarente, Locres, Vélia, Naples, pour mettre à sa disposition des trières et des pentécontères permettant à ses troupes de franchir le détroit de Messine (Polybe, I, 20).
En définitive, dans les années précédant la première guerre punique, Rome ne possède qu’une faible marine militaire et n’a qu’une très mince expérience maritime, toute occupée qu’elle est par la conquête de la péninsule, conquête dans laquelle elle réussit mieux que sur mer, avec son esprit « terrien ».
J.H. Thiel a étudié d’une manière approfondie les premières actions sur mer des Romains et les juge avec trop de sévérité et surtout sans nuances quand il dit qu’ils étaient de « vrais terriens » et des « marins d’eau douce ». Jusqu’à la première guerre punique, et même plus tard, ils ont été des marins maladroits et de piètres tacticiens, malgré leurs victoires acquises grâce à la discipline plutôt qu’à la connaissance intime de la mer et à leur sens tactique. « Le caractère général de l’histoire romaine au cours de cette période (jusqu’à la première guerre punique) ne laisse que peu de place pour une quelconque action sur mer de leur part : ce n’est pas l’histoire d’une puissance navale, mais celle d’une puissance continentale caractéristique, celle d’un peuple d’agriculteurs qui a conquis, patiemment et obstinément, toute l’Italie par l’intérieur, sans qu’apparaisse une seule fois la marine de guerre dans le tableau » (5).
Selon Jean Rougé, cette conception « terrienne » de la puissance maritime a conduit les Romains, qui n’avaient vraisemblablement pas profité de l’expérience de marins des cités de Grande Grèce, à défendre leur territoire du côté de la mer par une action purement terrestre de troupes légionnaires ou par « l’intermédiaire des colonies maritimes situées dans des positions stratégiques ». Cet auteur ajoute que « le témoignage de Polybe concorde mal avec une certaine idée que l’on a tendance à se faire actuellement de la puissance maritime avant les guerres puniques » (6). Cela a été vrai jusqu’à la première guerre punique et non au-delà.
Jacques Heurgon remarque que les intérêts navals de Rome s’affirmèrent aux environs des années 306-302 « par plusieurs faits diplomatiques importants ; c’est à cette époque que Polybe fait remonter l’amitié de Rome et de Rhodes (XXX, 5, 6), le troisième traité conclu avec Carthage en 306 définissant les zones respectives des deux parties excluant Rome de la Sicile et Carthage de l’Italie… L’accord intervenu vers 302 entre Rome et Tarente où Rome s’engageait à ne pas dépasser vers le nord le cap Lacinien… » (7).
La victoire de Rome sur Pyrrhus en 275 et son alliance avec Tarente en 272, qui fut, comme Naples, astreinte à lui fournir en temps de guerre des navires et des équipages, firent d’elle une puissance méditerranéenne. Des quaestores classici furent créés en 267 ; ils n’étaient pas destinés à un commandement dans une flotte encore inexistante, mais plutôt à contrôler la mobilisation des escadres des cités alliées de Rome, les socii navales (8).
On sait d’après Polybe comment les Romains construisirent une flotte de 100 quinquérèmes et de 20 trières en prenant modèle, pour les premières, sur une quinquérème punique échouée et tombée entre leurs mains. Polybe nous présente la capture de la quinquérème punique comme l’événement qui détermina les Romains à combattre sur mer les Puniques.
Si donc cet incident ne s’était pas produit, il est clair que, du fait de leur inexpérience, les Romains n’auraient jamais eu les moyens de réaliser leurs desseins (I, 20).
Aux yeux de certains historiens modernes comme Gilbert Charles-Picard, qui le qualifie d’« historiette », cet événement de la capture de la galère a paru suspect ; quelle que soit la genèse de la flotte romaine, la décision de la construire dénote chez les Romains une ferme résolution de combattre les Puniques sur leur propre terrain avec leur arme : la quinquérème, dont ils ont la maîtrise. Ce n’est pas le fruit d’une pensée navale, plutôt une forme de stratégie primaire mais efficace, et qui n’est pas le moindre élément constitutif de cette pensée. En outre, la méthode choisie par le commandement romain pour l’entraînement des équipes de nage des quinquérèmes montre également une systématisation digne des marines « matérialistes » du XXe siècle (9). Comme le remarque Jean Rougé, « Il est évident que le récit de Polybe, tout à la gloire de la détermination et de l’esprit d’initiative de Rome, doit être forcément enjolivé, car pour ses équipages Rome disposait de ses socii navales, de ses alliés maritimes » (10).
L’idée qui ressort des études des historiens contemporains est que les essais initiaux de l’activité navale des Romains ne doivent être ni exagérés, ni minimisés, et ils s’accordent pour reconnaître avec Polybe que c’est dans son récit qu’on verra l’élévation et la hardiesse du tempérament romain (…car) « il ne fallait pas laisser ignorer quand, comment et pourquoi les Romains se sont lancés pour la première fois sur mer… » (I, 20).
Carthage, face à la petite puissance continentale romaine, exerce son hégémonie entre les Syrtes et Gibraltar, s’est installée en Sicile et en Sardaigne, exploite les minerais du sud de l’Espagne. C’est une cité de commerçants et surtout de rouliers des mers. Sa flotte de guerre est puissante et combative. Carthage sera l’ennemie principale de Rome et l’obstacle majeur à l’impérialisme romain entre le IIIe et le milieu du IIe siècle.
A la lumière des remarques de Thiel (11) dans son analyse de la première guerre punique, il est aisé de comprendre pourquoi la pensée navale romaine a eu si peu de consistance et aussi pourquoi une compétition entre les deux marines était improbable. En effet, l’auteur, observant minutieusement la stratégie des deux adversaires par le biais des événements de la guerre, porte un jugement sur chacun d’eux :
1) Rome semble à première vue avoir une stratégie navale peu solide, incohérente et surprenante ; en réalité, ce n’est pas uniquement le manque de traditions maritimes qui est en cause, mais la nécessité ; le Sénat romain n’était pas libre de faire ce qui lui paraissait être le meilleur, car il avait à compter avec l’opinion publique, romaine d’abord et plus généralement avec celle des cités italiennes : « La mer était loin d’être familière aux Romains et surtout, ils redoutaient le combat naval ; si on décidait de construire des navires, c’était à Rome d’en supporter la dépense et aux Romains à servir de soldats de marine sur les bâtiments de la flotte ; c’était aux alliés italiens de Rome de fournir la plus grande partie des équipages et des rameurs » (12).
Thiel estime qu’en 259, un an après la victoire de Mylae, les Romains auraient pu lancer une opération de débarquement en Afrique ; cela n’a pas été possible puisqu’il fallait une nouvelle flotte plus nombreuse que la précédente. Le Sénat n’aurait pu convaincre les Romains peu connaisseurs des choses navales. La construction d’une nouvelle flotte après une victoire leur aurait paru une absurdité.
Toutefois, en 257-256, les Romains construisirent une flotte bien plus puissante que celle de 260, ce qui représente le deuxième grand programme de construction de toute la guerre qui dura de 264 à 241. Enfin, ce fut la mise en service de la flotte, entièrement neuve et très efficace, avant la victoire des îles Aegades sous le commandement d’un amiral exceptionnel, le consul Caius Lutatius Catulus.
Les énormes pertes en vies humaines et en bâtiments, dues aux actions militaires ou aux tempêtes, décimèrent littéralement la population adulte mâle à Rome : Thiel parle de 20% entre 264 et 246, soit 50.000 hommes ; Rome alla jusqu’à ne plus reparaître sur mer entre 249 et 243 (13).
2) Au sujet de Carthage, sans entrer dans les erreurs qu’elle commit dans cette guerre, on peut dire qu’elle possédait une flotte puissante et efficace et des amiraux habiles et courageux.
Cependant, les Carthaginois souffraient d’une faiblesse qui les poussait à la facilité, enclins qu’ils étaient à prendre la voie la moins ardue et à sous-estimer leurs adversaires. Carthage, il ne faut pas l’oublier, était une cité de marchands paisibles, qui désiraient éviter les guerres chaque fois que c’était possible ou bien relâchaient leurs efforts, en temps de guerre, quand le danger était momentanément écarté. Thiel parle de la « quiétude punique », une sorte de torpeur, de paralysie qui se manifeste par une apathie leur faisant manquer des occasions et perdre un conflit dans lequel ils auraient dû triompher.
Par ailleurs, Carthage ne pouvait à la fois entretenir une grande flotte et une armée de nombreux mercenaires ; une conséquence désastreuse de cet état de fait fut la défaite d’une flotte punique mal armée, surchargée, avec des équipages peu entraînés, face aux forces navales romaines en excellente condition au large des îles Aegades en 241.
Rome, à la fin de la première guerre punique, se trouva être la seule puissance navale de la Méditerranée occidentale ; elle joua son rôle de « fleet in being » au cours des 60 années qui séparent la bataille des îles Aegades (241) du début de la deuxième guerre punique. De plus, sans qu’elle eût une quelconque volonté d’expansion maritime, avec la possession de la Sardaigne et de la Corse, Rome commença à se constituer, à partir de la Tyrrhénienne, un embryon de mare nostrum, plutôt comme protection de son territoire que comme zone d’opérations navales. Thiel remarque qu’au cours du IIe siècle « la puissance navale romaine montra de plus en plus des symptômes de faiblesse alors que le centre de gravité se déplaçait vers les excellentes marines de Pergame et surtout de Rhodes ; dans la guerre contre Antiochos, ce furent les forces navales rhodiennes qui gagnèrent les batailles ».
Thiel peut conclure : « Avant le règne d ‘Auguste, il n’était pas question pour Rome de posséder une marine de guerre permanente ; quand on ne craignait pas de guerre navale, les Romains n’entretenaient pas de navires de guerre armés…, Pendant près d’un siècle et exactement pendant la période de l’histoire de Rome qui correspond à sa plus grande expansion, la marine de guerre romaine fut presque inexistante » (14).
Les flottes des derniers siècles de la République furent très différentes de celles des guerres puniques. Depuis ses débuts, à la fin du IVe siècle, l’activité sur mer des Romains avait beaucoup profité de l’expérience des Grecs et des Etrusques ; toutefois, il faut rappeler que pendant les guerres puniques, c’est Rome qui a armé en partie ses escadres avec ses propres citoyens, a construit ses navires avec ses propres deniers et a mis à leur tête un consul ou un préteur romain. Cependant, à partir de 200 avant J.-C., Rome fit reposer sa puissance maritime sur ses alliés grecs et surtout sur les forces navales rhodiennes, dont l’entraînement était exceptionnel.
Les cités alliées d’Ionie, de Phénicie, de Pamphylie et de Syrie fournirent la plupart des navires des escadres romaines, à l’exception de ceux que Rome construisait, qui étaient armés par des équipages de ces cités, si bien que les techniques navales grecques et orientales s’imposèrent de plus en plus dans la marine romaine à l’époque de la guerre sociale (90-88). Quant aux commandants en chef de ces flottes, qui étaient parfois des Grecs, Rome les subordonnait aux commandants des troupes de terre, preuve qu’elle n’avait pas entièrement compris le rôle d’une force navale.
Ces dispositions n’empêchèrent pas Mithridate, roi du Pont, lors de la première guerre qu’il mena contre Rome entre 89 et 85 avant J.-C., de s’emparer de la maîtrise de la mer Egée, ce qui entraîna, après sa défaite en 84, l’apparition d’une flotte permanente pour la première fois dans l’histoire de la marine romaine et par conséquent l’abandon du désarmement des forces navales après une victoire, ce qui avait été courant par le passé. Cette évolution laisse présager qu’une pensée navale est en gestation et qu’un embryon de marine impériale est en place, ce qui permet à C.G. Starr de dire que « si l’on demande à quelqu’un de citer un événement qui marque les débuts de la marine impériale romaine, cet événement serait à coup sûr celui de la première guerre de Rome contre Mithridate » (15).
Une autre conséquence de cette évolution fut la mise en place par Sylla, probablement en 85, d’un plan de défense des côtes de l’Asie mineure : des cités maritimes de cette région devaient construire des navires de guerre et les conserver en réserve pour une utilisation future ; cela permit à Rome d’avoir la maîtrise de la mer pendant la troisième et dernière guerre contre Mithridate (83-82) ; C.G. Starr observe qu’il était difficile pour l’Etat romain de poursuivre la réalisation d’un plan à cause des changements annuels de ceux qui avaient la responsabilité de son exécution.
Cette évolution se poursuivit quand Pompée, en 67 avant J.-C., triompha en trois mois des pirates qui infestaient presque toutes les eaux méditerranéennes. Selon Pline (Histoire naturelle, VII, 98) Pompée aurait « redonné la maîtrise de la mer à Rome » qui l’avait perdue au point que des pirates eurent l’audace de couler une flotte consulaire dans le port même d’Ostie (Plutarque, Pompée, XXXVIII à XLIV).
C’est l’époque où le comportement de Rome dans l’exercice de la maîtrise de la mer va commencer à se préciser et où la marine romaine va jouer un rôle capital dans les guerres civiles et après elles dans l’Empire. Les guerres contre Mithridate et la rapide campagne contre les pirates avaient montré l’importance de la puissance navale oubliée depuis les guerres puniques. F.E. Adcock remarque que « dans sa campagne la plus difficile, Pompée s’appuyait sur la puissance navale et César faisait confiance à la mer ; dans les situations graves, le dernier mot resta à la mer » (16). Il fait allusion aux opérations autour de Dyrrachium (Durazzo) où la très puissante flotte de Pompée fut mise en échec par les forces césariennes. On possède là une preuve supplémentaire que l’exercice de la maîtrise de la mer était considéré par les généraux romains comme un gage de victoire.
Pendant la guerre civile, les flottes devinrent de plus en plus puissantes ; Pompée, en faisant appel aux cités maritimes d’Asie, réussit à rassembler une force d’environ 300 navires au début de 48 ; ce sera Sextus Pompée, fils du grand Pompée, qui, possédant la maitrise de la Méditerranée occidentale, s’attaquera au ravitaillement en grains de Rome et fera des descentes sur les côtes italiennes pour un pillage en règle entre 42 et 40 avant J.-C.
En 38, le futur Auguste et Agrippa, son conseiller militaire et technique, vont construire une flotte de 400 navires qui triomphera de celles de Sextus Pompée à Mylae en 37, à Nauloque en 36 et finalement à Actium en 31. Cette force navale sera le noyau de la future flotte impériale. Ne doit-on pas voir dans cette œuvre une ébauche déjà bien avancée d’une pensée navale où Octave, le futur Auguste, représente la part politique et stratégique et Agrippa la collaboration du technicien et surtout du tacticien ; n’a-t-il pas été l’inventeur du harpax, espèce de grappin lancé par catapulte et ne fut-il pas honoré par le nouveau César qui lui donna une couronne navale, jamais jusqu’à ce jour octroyée à quiconque ? (Tite Live, CXXIX).
A cette flotte, il fallait une base qui, curieusement, fut choisie avant 37 dans la Provincia, à Forum Julii (Fréjus) où une partie de la flotte fut construite ; un port militaire fut créé plus près de Rome à Portus Julius, dans le golfe de Puteoli (Pouzzoles), et un centre d’entraînement dans le lac Averne, qui occupe un cratère parfaitement abrité de tous les vents
La pensée navale embryonnaire de l’époque républicaine a pu au début être la conséquence d’une conception rationnelle de la division des tâches dans un conflit ; elle laissait aux alliés des cités maritimes le soin des opérations navales alors que les opérations militaires terrestres revenaient de droit aux Romains. La même division des tâches apparut au XXe siècle dans les conflits où les hégémonies maritimes de la Grande-Bretagne ou des Etats-Unis se trouvaient impliquées.

La marine impériale romaine

Il faut citer l’opinion originale de C.G. Starr (17) à propos des conséquences de la bataille d’Actium :
« Pour l’histoire de la marine impériale romaine, Actium en soi n’est qu’un événement insignifiant… Ce dernier combat naval des guerres civiles, l’ultime grand conflit en Méditerranée jusqu’à celui qui opposera sur mer Constantin à Licinius en 324, est plus un prélude que les premières notes d’une ouverture dans l’histoire de la marine impériale romaine. La mission historique de cette marine n’était pas de livrer des batailles mais de les rendre impossibles ».
Végèce, dans son Art militaire (4, 31), précise les raisons de l’existence de la marine impériale :
« Le peuple romain a toujours eu une flotte prête, pour montrer et défendre sa puissance ; il ne l’organisait pas pour faire face aux exigences d’un conflit mais pour ne jamais être pris au dépourvu ».
A la mort d’Auguste en 14 après J.-C., outre le port de Forum Julii qui n’abritait qu’une flottille et devenait une base secondaire, les forces navales romaines étaient partagées en deux flottes, l’une en Tyrrhénienne avec Misène, près de Pouzzoles, pour base, la Classis Misenensis, et la seconde en Adriatique attachée au port de Ravenne, la Classis Ravennas. La création de la flotte de Misène remonterait à une date comprise entre 27 et 15 avant J.-C., alors que celle de Ravenne daterait d’environ 24 avant J.-C. Cette répartition des forces navales due à Octave et à Agrippa répondait sans doute à un plan stratégique conforme à une pensée navale plus solide.
- La flotte de la Tyrrhénienne, dont l’état-major resta pendant quatre siècles à Misène, possédait des bases secondaires à Puteoli (Pouzzoles), Ostie (à l’embouchure du Tibre), Centumcellae (près de Civitavecchia), Mariana et Aléria en Corse, Carales en Sardaigne (Cagliari). La flotte surveillait la Tyrrhénienne et plus particulièrement les îles turbulentes de Corse et de Sardaigne. En outre, elle étendait son contrôle sur tout le bassin occidental de la Méditerranée : Gaules, Espagne, Maurétanie (Végèce, 4, 31). Mais bien entendu, elle opérait de concert avec la flotte de Ravenne, qui lui était sans doute subordonnée, en Méditerranée orientale depuis la Libye jusqu’à la mer Egée. Elle détachait des flottilles dans certains ports de ces régions comme à Séleucie de Syrie pendant les guerres contre les Parthes.
- La flotte de l’Adriatique basée à Ravenne avait pour mission de surveiller la côte dalmate où elle avait une base secondaire à Salona (Split) capitale de la Dalmatie et une autre à Brundisium (Brindisi) pour assurer les relations des officiels avec Dyrrachium (Durazzo/ Durrès) ; la station d’Ancône n’est pas sûre, en revanche celle d’Aquileia, dans le golfe de Trieste est attestée. Hors de l’Adriatique, la flotte de Ravenne prêtait son appui à celle de Misène dans le bassin oriental ; des unités de l’Adriatique faisaient escale dans les ports de la Tyrrhénienne et tout particulièrement à Centumcellae qui devint leur base vers 100 après J.-C. (18)
C.G. Starr note que probablement Rome ne perdait pas de vue la question de son approvisionnement en bois de construction navale car la péninsule n’est pas riche en forêts ; il pense que les stations navales de Mariana et d’Aléria en Corse et le port de Ravenne sur l’Adriatique, relié au Pô, contrôlaient ces trafics du bois destiné aux chantiers de Misène et de Ravenne. Il est possible que la flottille de Syrie basée à Séleucie ait rempli la même tâche, les forêts de la région produisant les essences que Végèce (4, 34) estime convenables pour la construction navale : cyprès, pin, mélèze et sapin. Rostovtseff indique que l’empereur était propriétaire du sol de la Corse et sans doute des forêts ; d’où l’importance du port d’Aléria pour le contrôle du transport du bois de construction navale (19). Cette importante question stratégique ne pouvait recevoir de solution qu’inspirée par une véritable pensée navale.
Les escadres provinciales et les flottilles fluviales faisaient également partie des forces navales impériales au même titre que les flottes de Misène et de Ravenne. L’organisation et la défense de l’empire exigeaient des forces indépendantes dans les provinces : Syrie, Egypte, Maurétanie, et aussi en mer Noire et dans la Manche ; en outre des flottilles fluviales surveillaient le Rhin et le Danube : celles de Mésie et de Pannonie sur le Danube et ses affluents et celle de Germanie sur le Rhin. Certaines de ces formations remontent à l’époque augustéenne, comme l’escadre d’Egypte basée à Alexandrie et peut-être, mais c’est moins sûr, celle de Syrie attachée au port de Séleucie.
La marine impériale, telle qu’Auguste et Agrippa l’avaient conçue et telle que la considérèrent les empereurs suivants, était destinée, contrairement aux flottes républicaines toujours improvisées, à entrer en action dans les plus brefs délais dès l’apparition d’un perturbateur. Or, il n’y eut pas de perturbateur extérieur avant le IIIe siècle, avec l’invasion des Goths, et surtout avant le Ve siècle, avec l’arrivée des Vandales.
Les missions de la marine impériale permanente et professionnelle n’étaient pas uniquement dissuasives comme l’avaient sans doute prévu Auguste et Agrippa, elles étaient avant tout offensives dans l’esprit romain ; cet aspect a été perdu de vue par certains historiens modernes qui ont eu tendance à minimiser l’importance stratégique de la flotte (20). De même, contrairement à ce qui a été dit, l’action des forces navales n’a pas été policière mais militaire. Il s’agissait d’étendre la maîtrise des mers à toute la Méditerranée, qui assurait l’unité de l’empire et la protection de ses communications maritimes (21).
Les forces navales impériales ont continué tout au long des siècles à maintenir leur niveau d’entraînement en vue d’une bataille d’escadre qui ne vint jamais ; les flottes de Misène et de Ravenne et les autres faisaient des patrouilles, opéraient des débarquements en liaison avec les forces terrestres, assuraient le transport des troupes, participaient au ravitaillement des armées, n’escortaient pas les navires de commerce, mais luttaient contre les restants de piraterie. Quant aux forces fluviales, elles avaient un rôle très important, car elles permettaient aux troupes de traverser un fleuve, d’opérer des débarquements sur les arrières de l’ennemi, d’assurer la logistique des stations tenues le long des fleuves, bref de contribuer à la défense du limes (22) ; la colonne Trajane nous donne une représentation vivante de ce que furent les opérations des flottilles fluviales.
En outre, la flotte offrait un moyen de transport aux personnages officiels qui rejoignaient un poste ou qui accomplissaient une mission : Agrippa se fit accompagner en 14 avant J.-C. par une escadre lors d’une tournée d’inspection des ports d’Asie avec tout le décorum de l’amiral en mission qui montre le pavillon de son pays (Flavius Josèphe, XVI, 21). Tacite (Annales, II, 53ss) rapporte que Germanicus entreprit un voyage semblable en 18 après J.-C.
D’autre part, des navires rapides de la flotte transportaient les ordres et les dépêches depuis Rome jusqu’aux plus lointaines provinces accessibles par mer ; la flotte avait le monopole de l’acheminement du courrier officiel, même par terre, puisque c’étaient des marins qui assuraient la liaison entre Rome et les ports de la péninsule.
L’empereur Claude (41-54) continua la politique navale d’Auguste et probablement créa d’autres escadres provinciales ; ce sera Trajan (98-117) à l’époque de la plus grande extension de l’empire, qui donnera une expression définitive à l’organisation des forces navales qui restera en vigueur jusqu’au bas-Empire.
Il faut dire un mot du matériel naval qui constituait les flottes impériales et dont l’évolution depuis les types de la période républicaine est l’expression d’une pensée navale « matérialiste ». Pour leurs forces navales, Auguste et surtout Agrippa se contentèrent d’unités plus légères réclamant moins d’hommes d’équipages que les unités de la flotte de Pompée et donc moins coûteuses.
L’unique héxère des forces impériales, une « 6″, servait de navire amiral à la flotte de Misène ; elle avait 3 rameurs sur le même aviron à un niveau supérieur et 3 autres au niveau inférieur ; les autres unités étaient des quinquérèmes, des « 5″, des quadrirèmes, des « 4″, des trières, des « 3″ directement issues des trières grecques et enfin des liburnes qu’Agrippa incorpora et qui provenaient d’un modèle de navire léger utilisé par les pirates de la côte nord de l’Illyrie : la Liburnie.
Agrippa avait eu soin d’améliorer l’artillerie mécanique embarquée ainsi que les divers projectiles utilisant le feu, les traits, les flèches et le harpax dont il était l’inventeur. La marine byzantine sera l’héritière directe de la marine impériale romaine.
Ces unités, surtout les plus importantes, ne pouvaient longtemps tenir la mer par suite des contraintes qui les obligeaient à relâcher souvent pour faire de l’eau et des vivres ce qui imposait aux forces navales d’avoir un réseau d’escales. Les navires étaient peu aptes aux escortes de convois, à la tenue d’un blocus et aux patrouilles de longue durée, à moins que ces dernières ne soient faites à la voile.
Pour C. de la Berge « la création d’Auguste avait été, dès le début, fortement méditée et convenablement appropriée, tant aux besoins publics qu’aux instincts et aux intérêts des populations » (23).
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Tout ce qui vient d’être dit prouve que les Romains ont eu assez tôt conscience de l’importance stratégique de la mer, bien qu’ils aient été relativement étrangers à cet élément ; par la suite une pensée navale relativement évoluée a pu naître, permettant l’organisation et la mise en œuvre des forces navales impériales qui, pendant plus de trois siècles, ne connurent que le temps de paix en l’absence d’adversaires à leur taille : il n’y avait aucune force adverse à dissuader. Rome ne peut être considérée comme une thalassocratie car sa maîtrise de la Méditerranée a d’abord résulté du contrôle de la totalité de ses côtes.
Les bases et escales de la Marine impériale romaine d’Auguste à Marc Aurèle de 14 avant J.C. à 161 après J.C.
1 - Forum Julii (Fréjus) base navale jusqu’en 70 ap. J.-C.
2 -- Misène, base de la flotte de Misène à partir de 12 avant J.-C.
3 -- Ravenne, base de la Classis Ravennas à partir de 39 avant J.-C.
4 -- Alexandrie, base de la Classis Alexandrina à partir d’Auguste.
5 -- Séleucie, base de la Classis Syriaca, à partir de Vespasien (69-79) ( ?).
6 -- Trébizonde, base de la Classis Pontica, à partir de Claude, en 47-48 ou mieux de Néron (54-68).
7 -- Boulogne/Douvres, bases de la Classis Britannica, à partir de Claude (41-54) ou même avant.
8 -- Ostie, port de Rome, était un des principaux arsenaux de la marine républicaine ; devient une base secondaire de la marine impériale au moins depuis le règne de Claude.
9 -- Centumcellae (Civitavecchia), base secondaire ; relais à la fois vers la Sardaigne et la Corse.
10 -- Aleria, base secondaire ; contrôle le commerce des bois de l’île.
11 -- Cagliari, base secondaire.
12 -- Brindes (Brindisi).
13 -- Aquilea.
14 -- Salone (Split).
15 -- Athènes/le Pirée servait encore d’escale pour la marine républicaine ; sous l’empire elle joua le rôle de relais pour les flottes de Ravenne et de Misène.
16 -- Ephèse ; c’est là qu’Antoine rassembla sa flotte avant Actium ; ce port a été actif tout au long de l’empire jouant un rôle très important dans le transit des troupes, notamment pendant la guerre des Parthes sous Trajan et Marc-Aurèle en 114 et en 161.
17 -- Cyzique, base d’une division de la flotte de Misène à la fin du premier ou début du second ; plus tard a pu être la base de la Classis Pontica.
18 -- Césarée de Mauritanie (Cherchel) ; aurait été la base d’une flottille indigène sous Juba II avant l’annexion de la Maurétanie en 40 après J.-C. ; il n’est pas sûr qu ce port ait été une base de la marine impériale.
19 -- Cologne/Alteburg semble avoir été le principal port de la Classis Germanica : sa création remonterait à Claude (41-54). Elle disposait probablement de nombreux autres ports sur le Rhin inférieur.
20 -- Carnuntum aurait été une base de la Classis Pannonica où celle-ci devait avoir une flottille permanente détachée de sa base principale de Taurunum.
21 -- Brigetio, autre station fluviale de la Classis Pannonica.
22 -- Taurunum, près de Belgrade, est la grande base navale attestée de la Classis Pannonica depuis Vespasien (69-79).
23 -- Ratiaria, aurait été une des bases de la Classis Mœsica en aval des Portes de Fer où commençait sa zone de patrouille ; elle remonterait à l’époque augustéenne.
24 -- Noviodunum (Isaaccea) est la grande base de la Classis Mœsica dont la création date également de Vespasien ; cette flotte devait aussi contrôler la façade maritime de la Mésie.
25 -- Istrus, port fréquenté par la Classis Mœsica.
26 -- Chersonèse Taurique, port fréquenté par la Classis Mœsica sous Néron (54-68) à l’époque de la guerre d’Arménie.
27 -- Panticapée est un port où le passage de la flotte est attesté.
28 -- Sinope aurait été une base pour les escadres romaines et alliées ; elle était fréquentée en 14 avant J.-C. par Agrippa et le port servait d’abri à une flotte sous Trajan vers 115.
29 -- Calchedon face à Byzance, a servi à plusieurs reprises de base aux escadres impériales.
30 -- Périnthe a joué un rôle semblable à celui de Calchedon et plus particulièrement aussi de base de transit pour les troupes en provenance du front du Danube et destinées à l’Orient.
31 -- Thessalonique (Salonique) a reçu des escadres appartenant à la flotte de Misène dès le Haut Empire ; ce port constituait une escale vers l’Orient.
32 -- Palerme a occasionnellement reçu des escadres de Misène se rendant vers l’Espagne ou vers l’Afrique.
33 -- Syracuse a été une escale pour les escadres à destination de l’Orient.
 A -- Classis Germanica ; B -- Classis Pannonica ; C -- Classis Mœsica
Jean Pagès  http://www.theatrum-belli.com
Source : M. Reddé, Mare Nostrum, les infrastructures, le dispositif et l’histoire de la marine militaire sous l’empire romain, Ecole française de Rome, 1986.
Notes :
1. Jacques Heurgon, Rome et la Méditerranée occidentale jusqu’aux guerres puniques, PUF, 1980, pp . 110.
2. Jacques Heurgon, op. cit., p. 301.
3. Jacques Heurgon, op. cit., p. 337.
4. André Piganiol, La conquête romaine, Alcan, 1930, p. 132 ; J.H. Thiel, A History of Roman Sea-Power before the Second Punic War, North Holland Publishing, Amsterdam, 1954.
5. J.H. Thiel, op. cit., p. 46. E. Pais, Storia critica di Roma durante i primi secoli, E. Loeschner puis P. Maglione et C. Strini, Rome, 1918-1920, l’auteur pense que malgré la psychologie « continentale » du peuple romain, Rome « fut aussi une grande puissance maritime », « sans maîtrise de la mer, Rome n’aurait ni conquis l’empire, ni pu le conserver ».
6. Jean Rougé, La marine dans l’Antiquité, PUF, 1975, p. 111s.
7. Jacques Heurgon, op. cit., p. 337. Le cap Lacinien est aujourd’hui le cap Rizzuto à l’entrée du golfe de Tarente.
8. J.H. Thiel, op. cit., p. 160 ; Jean Rougé, op. cit., p. 112.
9. La marine marchande américaine pendant la seconde guerre mondiale a créé à terre un centre d’entraînement pour les états-majors et les marins qui serviront sur les « Liberty-ships » où ce personnel faisait le quart et vivait absolument comme à la mer.
10. Jean Rougé, op. cit., p. 113.
11. J.H. Thiel, op. cit., pp. 320 ss.
12. J.H. Thiel, op. cit., p. 325.
13. J.H. Thiel, op. cit., pp. 328-329.
14. J.H. Thiel, Studies on the History of Roman Sea-Power in Republican Times, Amsterdam, North Holland Publishing, 1946, p. 131
15. C.G. Starr, The Roman Imperial Navy 31 BC-AD 324. Westport, Connecticut, Greenwood Press, 1975, p. 1.
16. Cité par C.G. Starr, op. cit., p. 3.
17. C.G. Starr, op. cit., p. 4 ss.
18. C.G. Starr, op. cit., pp. 13-24.
19. C. de la Berge, « Etudes sur l’organisation des flottes romaines », Bulletin épigraphique, tome 6, 1886, p. 227 ; M.I. Rostovtseff, Histoire économique et sociale de l’empire romain, Laffont, 1988, p.165.
20. A. Piganiol a consacré une demi-page à la marine dans son manuel d’histoire de l’empire romain !
21. C.G. Starr, op. cit., pp. 106 ss.
22. C.G. Starr, op. cit., pp.124 ss.
23. C. de la Berge, art. cit., p. 3.
Source du texte : STRATISC.ORG

mercredi, 01 février 2012

Miti e simboli del paganesimo e del cristianesimo

Miti e simboli del paganesimo e del cristianesimo

Il cristianesimo come negazione dell’ethos, la proiezione dell’ideale morale nella sfera ultraterrena

Fabio Calabrese

Ex: http://www.rinascita.eu/

dearoma.jpgNella storia dell’Europa e della cultura europea, paganesimo e cristianesimo si sono, oltre che combattuti senza pietà (soprattutto da parte cristiana, le cui persecuzioni contro i pagani furono assai più violente, spietate e prolungate nel tempo di quelle pagane contro i cristiani) variamente sovrapposti, intrecciati, mescolati.
In particolare, l’affermazione del cristianesimo non fu dovuta a predicatori ingenui, appassionati e idealisti, ma a scaltri e pragmatici politicanti. Costoro non ebbero mai nessuno scrupolo a impadronirsi non solo di luoghi di culto, di divinità locali da trasformare disinvoltamente in santi e madonne, ma anche di complessi ideologici-mitologici-simbologici molto vasti, creando delle situazioni ambigue, difficili da districare se non si hanno le idee chiare e non si dispone di una base culturale robusta. Peggio ancora, possono generare l’impressione che l’abisso che separa il paganesimo dal cristianesimo sia un semplice fossato che si può scavalcare senza troppi problemi. E’ questo un motivo che, forse, non ho evidenziato a sufficienza nell’articolo Il cioccolatino e l’incarto (http://www.ereticamente.net/2011/12/il-cioccolatino-e-lincarto.html) per spiegare come mai molti tradizionalisti sedicenti evoliani siano saltati sulla sponda cattolica considerando un semplice approfondimento quella che a tutti gli effetti è una vera e propria abiura. Lo storico Antonio Brancati ha fatto un’interessante analisi di quella che è stata chiamata l’opera di inculturazione cristiana, che è altra cosa e più sottile della prevalenza del cristianesimo in epoca tardo antica a livello di istituzioni, richiese almeno un millennio e ancora oggi è difficile dire se abbia davvero trionfato completamente sulla spiritualità nativa dell’Europa.


In pratica tutto ciò che era troppo radicato nella coscienza europea per essere proibito o estirpato, venne “battezzato”, dalle divinità trasformate in santi, al samain celtico convertito nella festività di ognissanti, alla celebrazione del solstizio d’inverno trasformata nel cosiddetto natale di Gesù Cristo (che nessuno sa quando sia effettivamente nato), e via dicendo:


“Un tipico esempio di questa contaminazione è il cosiddetto “magico cristiano”, ossia un complesso insieme di veri e propri riti magici di derivazione chiaramente pagana ma debitamente “ribattezzati” mediante l’uso di preghiere ampiamente accettate dalla Chiesa e l’abuso di ampi gesti di croce: riti frequentemente praticati per ottenere la fertilità dei campi o per riacquistare in qualche modo la perduta salute del corpo” (1).


Un complesso mitico-simbolico particolarmente importante che si è prestato a questa operazione che gli storici hanno chiamato di inculturazione, ma che noi potremmo anche chiamare di appropriazione indebita, è rappresentato dal Santo Graal, uno di quei miti-simboli potenti che ci fanno capire che il processo di trasformazione, per usare la terminologia di Oswald Spengler, della Kultur europea in una Zivilization mondialista, anodina, senza volto, non si è ancora del tutto (e forse non sarà mai) completato.
Per capire il reale significato del Graal, occorre fare riferimento al contesto storico nel quale il mito è nato: la Britannia del V secolo alla vigilia dell’invasione sassone, un ambiente sostanzialmente pagano, anche se già oggetto di una prima superficiale cristianizzazione. Re Artù ha perso la regalità a causa dell’inconsapevole incesto con Morgana e deve essere riconsacrato con quella che verosimilmente era stata la coppa della sua incoronazione primitiva. Cosa c’è di più ovvio in un ambiente nel quale un radicato paganesimo nativo inizia a mescolarsi ai riti e ai simboli della religione importata, che la coppa, il calderone usato per la consacrazione dei re celtici (il termine Graal viene dal latino gradalis che indica un recipiente piuttosto ampio, come il celebre calderone di Gundsrupp, d’altra parte, sempre da qui viene l’italiano grolla) fosse confuso con il calice dell’eucaristia?


E’ tuttavia una concezione pagana del tutto incompatibile con il cristianesimo quella che emerge dalla narrazione del mito arturiano. Merlino (come la sua copia moderna, Gandalf) è evidentemente un druido e non un prete, ma soprattutto il re celtico è portatore di una legittimità e di una sacralità propria in quanto “figlio di Lugh” che il druido può riconoscere e certificare ma non creare con la consacrazione, egli è - come nell’antica religione romana - “pontifex”, chiamato a fare da ponte fra la terra e il cielo, ed è per questo che la decadenza di Artù provoca l’isterilimento della terra. Il cristianesimo non ammette altro pontefice (titolo, come ben sappiamo, usurpato dalla romanità) che il vescovo di Roma, sedicente vicario di Cristo.


L’idea della regalità sacrale è una concezione pagana totalmente opposta al cristianesimo; un punto che il filosofo (cattolico) Massimo Cacciari aveva colto molto bene in un’intervista rilasciata al giornalista Maurizio Blondet e da questi riportata nel libro Gli “adelphi” della dissoluzione (2):


“Il cristianesimo è necessariamente sovversivo di ogni potere politico che si pretende autonomo”.


Tanto più allora di una sacralità che non passi attraverso la Chiesa, unica autorizzata interprete “di Dio” su questa terra.


In quell’intervista davvero memorabile, il filosofo-sindaco di Venezia espresse concetti tali da far pensare che solo un opportunismo politico in contrasto con le sue convinzioni profonde l’abbia spinto a militare non solo nel gregge cattolico, ma nell’area politico-culturale di sinistra. Ecco quel che disse allora a Blondet riguardo ai fascismi e alla seconda guerra mondiale:


“Per sradicare il Giappone dal proprio sacro nomos, non ci volle nulla di meno che l’olocausto nucleare. Migliaia di tonnellate di bombe furono necessarie per stroncare Fascismo e Nazismo, “forme di che cercavano di ricollegare la società a un Ethos”.

Poco più sopra, aveva precisato che:
“Ethos, o per i latini Mos, non è affatto ciò che noi oggi intendiamo per “etico” o “morale”. Ethos non indicava comportamenti soggettivi; indicava la “dimora”, l’abitare in cui ogni uomo si trova alla nascita, la radice a cui ogni uomo appartiene. In questo senso, un greco non era più o meno “etico” per sua scelta o volontà. Egli apparteneva a un ethos. A una stirpe, a un linguaggio, a una polis. Che non era stato lui a scegliere (…).


Ogni società tradizionale ha, o meglio è, un ethos. Ogni società tradizionale, come un albero rovesciato, ha la sua radice nella legge divina, nel nomos. La legge della polis, dice Erodoto, è l’immagine di Dike [la dea della Giustizia]. Un ethos impone all’uomo valori che non è a scegliere, a decidere, ma a cui appartiene”.


Un rapporto profondo fra uomo e“polis”, “civitas”, che non solo il cristianesimo ha negato, e infatti Cacciari ci spiega ancora che il cristianesimo: “E’ stato dirompente rispetto a ogni ethos”, ma potremmo addirittura definire il cristianesimo puramente e semplicemente come la negazione dell’ethos, la proiezione dell’ideale morale nella sfera ultraterrena e contemporaneamente nella dimensione soggettiva. In altre parole, come aveva chiaramente intuito Jean Jacques Rousseau: “Il cristianesimo separa l’uomo dal cittadino”.
Quello che dovremmo dunque aspettarci dai fascismi sarebbe un recupero consapevole della simbologia pagana e il rifiuto di qualsiasi tendenza cristianeggiante; purtroppo però spesso le cose non sono affatto andate in questo modo.


In particolare, per quanto riguarda il mito del Graal, a dare forma alla versione cristiana (o cristiano-esoterica) di esso è stato un occultista tedesco vissuto fra le due guerre mondiali, Otto Rahn.


Il Graal sarebbe stato un oggetto connesso alle origini del cristianesimo, anche se non è ben dato di capire cosa, se il calice dell’Ultima Cena, un recipiente in cui qualcuno – pare Giuseppe d’Arimatea – avrebbe raccolto il sangue uscito dal costato di Cristo quando fu trafitto dalla lancia di Longino, o ancora secondo una terza e più fantasiosa versione, il Sang Real, nientemeno che la stirpe dei discendenti di Cristo e Maria Maddalena.


Nessuna di queste tre versioni regge a un’analisi minimamente seria. Se andiamo a rileggere il racconto evangelico vediamo che viene data importanza all’atto della consacrazione, non al contenitore che – ammesso che l’episodio sia realmente avvenuto – sarà stato una comune stoviglia finita dopo la cena nell’acquaio assieme alle altre. Sempre il racconto evangelico demolisce la seconda versione: ci racconta che il costato di Cristo sarebbe stato trafitto post mortem. Da un cadavere in cui la circolazione sanguigna si è interrotta, non possono uscire che poche gocce. Immaginiamoci Giuseppe di Arimatea – che aveva già il contenitore pronto – schizzare a tutta velocità fra le gambe dei soldati romani per raccoglierle, ma stiamo parlando del vangelo o di Asterix? Quanto alla terza versione; noi non abbiamo nessuna notizia storica sulla vita di Cristo risalente a fonti diverse dai vangeli che a loro volta non sono in alcun modo un documento storico attendibile, non possiamo escludere che Gesù Cristo, sempre che sia realmente vissuto, abbia avuto dei discendenti, ma il collegamento che è stato ipotizzato fra ciò e la stirpe reale merovingia è fantasioso e ridicolo.


Accanto a ciò Rahn nel suo libro Crociata contro il Graal (3) presenta una serie di ipotesi una più fantasiosa dell’altra secondo la quale esso sarebbe stato portato nella Francia meridionale, passato in custodia prima degli Albigesi poi dei cavalieri Templari, e la Chiesa avrebbe organizzato la crociata contro gli Albigesi e il processo all’ordine templare precisamente allo scopo di impadronirsene. Tutta la paccottiglia pseudo-esoterica che in tempi più vicini a noi Baigent, Leigh e Lincoln, i tre inglesi autori de Il santo Graal (4) hanno scopiazzato alla grande, e che poi a sua volta Dan Brown ha scopiazzato ne Il codice Da Vinci(5).


Disgrazia vuole che Otto Rahn riuscisse a infinocchiare (scusatemi, ma non riesco a trovare un’altra espressione) nientemeno che il ReichsfuhrerSS Heinrich Himmler che lo nominò ufficiale delle SS ad honorem. Addirittura nel 1944, quando era in corso l’attacco angloamericano alla Francia, Himmler arrivò a distogliere dal fronte una delle migliori divisioni di Waffen SS, la Das Reich spedirla a cercare il santo Graal nei luoghi indicati da Rahn, senza che – ovviamente –venisse trovato nulla.


I “pallini” occultistici di Himmler erano ben lungi dall’essere condivisi dagli altri dirigenti nazionalsocialisti che ne facevano spesso oggetto di ilarità; nonostante ciò, sono serviti dopo la guerra a una caterva di sedicenti storici cialtroni e senza scrupoli i cui capostipiti sono stati nei primi anni ‘60 Louis Pauwels e Jacques Bergier nel libraccio Il mattino dei maghi (6), per costruire l’immagine di un nazismo esoterico e satanista.


Sarebbe forse invece il caso di indagare l’aspetto superstizioso e stregonesco dell’antifascismo, come io ho cercato di fare nel testo Il fascismo secondo Indiana Jones, (http://www.centrostudilaruna.it/il-fascismo-secondo-indiana-jones.html), pubblicato sul sito del Centro Studi La Runa al quale vi rimando.


In tempi recenti soprattutto il successo planetario mediaticamente ben pompato del Codice Da Vinci Dan Brown e della sua versione cinematografica (una delle pellicole più brutte in assoluto della storia del cinema) ha rilanciato l’idea di un cristianesimo esoterico, idea che è una totale contraddizione, in quanto fino all’avvento dell’islam non è esistita una religione meno esoterica e più plebea del cristianesimo. Gli elementi di questo cristianesimo esoterico sono quelli indicati dal quinto al nono evangelista, ossia Rahn-Baigent-Leigh-Lincoln-Dan Brown: santo Graal, Catari (Albigesi) e cavalieri Templari.


Cosa si debba pensare della versione cristiana del mito del Graal ve l’ho appena spiegato. Quanto ai Catari o Albigesi, essi non furono tanto un movimento ereticale, quanto piuttosto una vera e propria rinascita pagana, l’ho ampiamente spiegato nell’articolo Risorgimento, rinascimento, rinascita pagana (http://www.ereticamente.net/2011/11/risorgimento-

rinascimento-rinascita.html), presente sul sito di “Ereticamente” al quale di nuovo vi rimando.
Riguardo ai cavalieri Templari, c’è un discorso che merita di essere approfondito.

Certamente, al di là delle accuse palesemente infondate che furono loro mosse, al di là del fatto che l’Ordine cavalleresco fu sciolto e i suoi membri incarcerati, torturati e mandati al rogo perché il re di Francia Filippo il Bello e papa Clemente V erano desiderosi di mettere le mani sulle ricchezze che esso aveva accumulato, su di un altro piano c’è verosimilmente una ragione più profonda per tutto ciò.


Gli Ordini cavallereschi, Templari in primis, hanno incarnato una figura di monaco-guerriero, un tipo di spiritualità che la Chiesa ha dovuto evocare in un momento critico della sua storia, ma che rimaneva profondamente estranea al cristianesimo, e di cui si è sbarazzata appena possibile.


Questa figura che non trova corrispondenze di sorta nel cristianesimo né tanto meno giustificazioni“scritturali”, le trova invece molto fuori da esso, nella tradizione indiana ed estremo-orientale. Si pensi per la tradizione indiana alla Bhagavad Gita, il testo sacro incentrato sulla figura del divino guerriero Arjuna, e per quella estremo-orientale, nipponica, al bushido, la via del guerriero, vera e propria via ascetica attuata attraverso l’arte della guerra, che era praticata dai samurai, e che poi durante l’ultimo conflitto mondiale ha animato lo spirito dei kamikaze. Forme di spiritualità, lo si vede bene, assolutamente non rapportabili al cristianesimo.


Anni fa, mi è capitato di trovarmi coinvolto in una discussione piuttosto accesa con una signora che si dichiara “evoliana” e che mi ha rimproverato piuttosto aspramente l’antipatia che non ho mai cercato di nascondere per la religione del Discorso della Montagna. A suo dire infatti, nel corso dei due millenni della sua storia, il cristianesimo si sarebbe incrostato di simbolismi di origine pagana che l’esperto di tradizioni può comunque riconoscere e fruire (?).


Sarà anche, ma perché abbassarsi a un simile compromesso? Perché ricorrere a una copia deformata e mutila quando si può risalire all’originale?


Nel corso della discussione, questa signora si vantò di non leggere altri autori tranne Julius Evola e John R. R. Tolkien (e mi sembrò un’ottima candidata a ritrovarsi in compagnia di Adolfo Morganti a scadenza più o meno breve), e in quel momento mi parve proprio di cogliere l’essenza del tradizionalismo, cioè una mentalità che si crede forte perché è chiusa. A mio parere, la forza non può nascere dalla paura di confrontarsi con altre forme di pensiero. La forza nasce dal coraggio, non dalla paura.


Tuttavia, a questo riguardo, cosa possiamo dire di John Tolkien, autore, come sappiamo, svisceratamente amato dai tradizionalisti sia cattolici sia sedicenti evoliani?
Penso che quello che ho da dire non sarà gradito ai tolkieniani, ma io credo che sia difficile trovare uno scrittore o un uomo qualsiasi in più profonda contraddizione con se stesso di quanto non lo fosse John R. R. Tolkien. Egli dichiarava avversione per il mondo celtico, eppure elementi celtici emergono in quantità dalla sua narrativa; si professava cristiano, eppure il tipo di visione del mondo e di etica che è possibile desumere dai suoi romanzi, è tutto meno che cristiano.


Del celtismo che interpretava solamente come separatismo scozzese, gallese, nord-irlandese, Tolkien aveva un’idea ristretta, e da leale suddito britannico, lo detestava, eppure tutta la sua narrazione rigurgita di elementi celtici: non sono solo le figure di elfi, nani, orchi e troll direttamente provenienti dalla mitologia celtica attraverso il folclore popolare; c’è anche la figura di Gandalf, straordinariamente simile a quella di un druido, e si pensi all’anello di Sauron, un Graal di segno capovolto, non da trovare ma da perdere o distruggere.


Noi sappiamo che qualcuno – come August Derleth – ha cercato di interpretare perfino un autore come H. P. Lovecraft in senso cristiano; era impossibile che John R. R. Tolkien sfuggisse a interpretazioni di questo genere quando egli è stato il primo a fraintendersi.
Noi sappiamo che nel mondo occidentale siamo più o meno tutti “cristiani” sulla carta, perché siamo stati battezzati molto prima che avessimo la capacità di decidere in merito o di dire la nostra opinione, e di solito tendiamo a non dare alla cosa molta importanza, Tolkien però apparteneva alla minoranza cattolica inglese, una minoranza – è risaputo – veramente esigua.


Isociologi ci insegnano che, quanto più una minoranza è ristretta, tanto più è forte il senso di appartenenza ad essa dei suoi membri; un’adesione che può essere anche emotivamente molto forte, come quando si tifa per una squadra di calcio, ma poi bisogna vedere come questo si rapporti a quella che chiameremmo la visione del mondo profonda di una persona, e in qualche caso, come appunto quello di John R. R. Tolkien, può essere che non vi si rapporti per nulla.


L’etica di Tolkien non è cristiana, è di tipo eroico, tradizionale, guerriero, indoeuropeo, che non comanda di porgere l’altra guancia ai nemici, ma di combatterli con le armi in pugno.
Se esaminiamo nel Signore degli anelli (7) la figura di Gandalf, vediamo facilmente che è modellata su quella di Merlino, e assomiglia molto di più a un druido che non a un sacerdote cristiano.


Consideriamo un attimo il rapporto fra Gandalf e Aragorn, è una relazione che implica la pari dignità dell’autorità sacrale “druidica” di Gandalf con quella regale e guerriera incarnata da Aragorn. Questa concezione va contro il cristianesimo che non ammette che le altre funzioni, diverse da quella sacerdotale, possano avere una dignità e tanto meno una sacralità autonoma, ed è invece consonante con la tradizione indoeuropea e celtica. Questo diverso segno si vede bene nella parole del Merlino di Excalibur di John Boorman (sappiamo che Merlino è l’erede della tradizione druidica e che Boorman ha reso bene quanto meno lo spirito del personaggio) che incoraggia Artù dicendogli: “Eppure hai estratto la spada dalla roccia, io non avrei potuto farlo”.


Il potere magico-druidico ha dei limiti che la regalità sacrale può oltrepassare. Artù e Aragorn sono, come il re celtici “figli di Lugh”, portatori di una regalità sacrale che Merlino e Gandalf possono riconoscere e garantire, ma non creare attraverso una consacrazione.
In altre sedi, mi è capitato di definire Tolkien un “celta suo malgrado”, un giudizio che non vedo alcun motivo di modificare. Per quanto ciò possa dispiacere ai moderni esegeti di Tolkien di impostazione cattolica, considerando i tratti druidici della figura di Gandalf e la concezione della regalità sacrale incarnata dalla figura di Aragorn, potremmo dire che l’autore del Signore degli anelli è stato anche un pagano suo malgrado.


In ogni caso, io ritengo sia pericoloso ritenere “un maestro” un uomo in così profonda contraddizione con se stesso, perlomeno bisognerebbe avere le idee ben chiare prima di accostarsi alla sua opera letteraria.


Arrivata in Italia negli anni ‘70, l’opera letteraria di John R. R. Tolkien, per motivi che sono ovvi, subì da parte della cultura di sinistra un pesante ostracismo e boicottaggio, e questo ha fatto sì che “a destra” ricevesse un’accoglienza entusiastica e acritica, al punto che, ad esempio, i raduni di giovani della“destra radicale” furono chiamati “campi hobbit” con riferimento ai personaggi del Signore degli anelli.


Tuttavia negli stessi anni negli Stati Uniti il Signore degli anelli, oggetto di letture di ben altro tipo, era diventato “la bibbia” degli hippy californiani. Perché? Perché, letta in chiave anarchica o almeno anarcoide, la lotta contro Sauron, l’Oscuro Signore, veniva vista come metafora del rifiuto e della lotta contro qualsiasi tipo di potere e di autorità.


Si trattava, come è facile comprendere, di una lettura profondamente falsata e scorretta, perché – bisogna ammetterlo – in Tolkien non c’è per nulla l’esaltazione dell’anarchismo; al potere tirannico di Sauron, infatti, si contrappone l’autorità legittima; l’autorità civile-guerriera di Aragorn e quella magico-sacerdotale di Gandalf.


Tuttavia anche questa è una storia che abbiamo già visto innumerevoli volte: alla menzogna cristiana segue come ulteriore falsificazione la menzogna marxista, c’è tutta la nostra storia degli ultimi due secoli in questo.


Il cristianesimo, spostando il sacro nella sola dimensione del soprannaturale, ha totalmente desacralizzato l’esistenza, è ancora Massimo Cacciari a dircelo:


“Il Cristianesimo non ha più radici in costumi tradizionali, in una polis specifica, in un ethos; non ha più nemmeno una lingua sacra (...). Il Cristianesimo si rivela essenzialmente sovversivo dell’Antichità e dei suoi valori; esso spezza definitivamente i legami fra gli Dei e la società. L’ethos antico era una religione civile (...). Il Cristianesimo, consumando la rottura con gli dei della Città, sradica l’uomo (…). Uno stato doloroso: il Cristianesimo getta l’uomo nella libertà come un è gettato in [un] mare in tempesta”.


Le rare volte in cui sono in vena di sincerità, questi cristiani merita proprio di stare a sentirli. Esprimendo una linea di pensiero molto simile a quella esposta da Cacciari, nel libro Ipotesi su Gesù, Vittorio Messori ammette che “Quando i pagani accusavano i cristiani di essere atei, avevano perfettamente ragione” (8).


Per noi, che ci siamo assunti il compito di “ricollegare la società a un ethos”, miti e simboli pagani ancora presenti nella nostra cultura rappresentano un deposito prezioso da trasmettere e rivitalizzare, ma proprio questo impone di stare attenti alle contaminazioni cristiane.
 
Note
 
Antonio Brancati: Popoli e civiltà, vol. 1, La Nuova Italia, Firenze 1990, pag. 49-51.
Maurizio Blondet: Gli “adelphi” della dissoluzione, Ares, Milano 2000.
Otto Rahn: Crociata contro il Graal (Kreuzzug gegen den Graal), Barbarossa, Saluzzo 1979.
Michael Baigent, Richard Leigh, Henry Lincoln: Il santo Graal (The Holy Blood and the Holy Grail), Rizzoli, Milano 2005.
Dan Brown: Il codice Da Vinci (The Da Vinci Code), Mondadori, Milano 2003.
Louis Pauwels, Jacques Bergier: Il mattino dei maghi (Le matin des magiciens), Mondadori, Milano 1997.
John R. R. Tolkien: Il signore degli anelli (The lord of the Rings), Bompiani, Milano 2003.
Vittorio Messori: Ipotesi su Gesù, SEI, Torino 1976.
 
Fabio Calabrese
www.ereticamente.net